26 Ottobre 2020

La convenzione di Singapore: quale futuro per le mediazioni commerciali?

ROBERTO PIROZZI

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Abstract

L’esigenza di definire in modo rapido e certo le controversie, soprattutto quelle di natura commerciale, ha determinato il grande successo e la sempre maggior diffusione degli strumenti di risoluzione delle dispute alternativi al giudizio (c.d. ADR).

In ambito internazionale, lo strumento di gran lunga più utilizzato è l’arbitrato, i cui ingenti costi hanno però un effetto “deterrente” non trascurabile.

Con l’entrata in vigore della Convenzione delle Nazioni Unite sull’esecutività degli accordi raggiunti in mediazione (“Convenzione di Singapore” o “Convenzione”), è stato aggiunto il tassello mancante nel grande mosaico degli strumenti di risoluzione delle controversie internazionali.

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Il 12 settembre scorso, ovvero 6 mesi dopo il deposito della ratifica da parte del Qatar, la Convenzione di Singapore è entrata in vigore, chiudendo così un processo iniziato il 18 dicembre 2018 e che ha avuto il suo punto di culmine con la cerimonia delle firme del 7 agosto 2019.

Tale Convenzione ha lo scopo di introdurre un quadro giuridico – fino ad oggi mancante – attraverso il quale dare efficacia esecutiva agli accordi per la risoluzione di dispute commerciali internazionali raggiunti in sede di mediazione.

Dunque con la Convenzione di Singapore – che va ad aggiungersi alla Convenzione per il riconoscimento e l’esecuzione dei lodi arbitrali stranieri del 1958 (“Convenzione di New York”) ed alla Convenzione dell’Aia per il riconoscimento e l’esecuzione delle sentenze straniere in materia civile e commerciale del 2019 (non ancora in vigore) – la mediazione ha acquistato a pieno titolo un ruolo di primo piano nell’alveo degli strumenti di risoluzione delle controversie internazionali.

Il che è particolarmente vero, se si considera che il successo dell’arbitrato è stato senz’altro decretato dalla possibilità di mettere direttamente in esecuzione un lodo straniero in oltre 157 giurisdizioni grazie alla Convenzione di New York.

Pertanto, in tale direzione, sulla scorta dell’esperienza dell’arbitrato internazionale dal 1958 ad oggi, si ritiene che la portata della Convenzione di Singapore sugli scambi commerciali transnazionali sarà ancor più dirompente rispetto a quella di New York.

Ciò in quanto la mediazione, se da un lato ben risponde – come l’arbitrato – all’esigenza di celerità e riservatezza delle parti coinvolte in controversie di natura commerciale, dall’altro meglio riscontra la necessità di contenere i costi legati al contenzioso. Senza poi considerare che procedure di natura “non-contenziosa” per definizione consentono alle parti coinvolte di mantenere in vita e proseguire le relazioni commerciali. 

Per quel che concerne gli aspetti di carattere più prettamente tecnico-giuridico, si segnala che la Convenzione si applica esclusivamente agli accordi raggiunti tramite mediazione per la risoluzione di controversie commerciali internazionali, con la precisazione che non sono comprese nel concetto di dispute quelle aventi ad oggetto:

i) il diritto di famiglia; ii) successioni; iii) rapporti di lavoro; iv) il diritto dei consumatori.

Così come sono esclusi dall’ambito di applicazione, gli accordi transattivi approvati da un tribunale o conclusi nell’ambito di un procedimento giudiziale.

Grazie alla Convenzione, la parte che ne avrà interesse potrà chiedere all’autorità giudiziaria competente di attribuire all’accordo così raggiunto efficacia esecutiva secondo le proprie regole procedurali, per poter poi avviare il procedimento di esecuzione nei confronti della parte inadempiente.

Per far ciò, occorrerà fornire all’autorità dello Stato firmatario l’accordo di transazione firmato dalle parti nonché la prova che l’accordo stesso sia il risultato di un procedimento di mediazione (i.e. firma del mediatore ecc.). Naturalmente, la Convenzione prevede altresì una serie di circostanze all’occorrenza delle quali l’autorità giudiziaria nazionale potrà rifiutarsi di riconoscere efficacia agli accordi transattivi, distinguendo tra questioni rilevabili d’ufficio e questioni rilevabili su istanza di parte.

Può dunque certamente affermarsi che la Convenzione, considerato anche il crescente ruolo che si comincia ad attribuire alla procedura di mediazione all’interno degli ordinamenti giuridici nazionali, permetterà a tale strumento di acquisire rilevanza pari a quella di cui gode da tempo l’arbitrato internazionale.

Con il risultato che la Convenzione di Singapore rappresenterà senz’altro un’agevolazione per le imprese, che potranno selezionare più liberamente il metodo di risoluzione più appropriato per la risoluzione delle loro controversie, senza doversi preoccupare delle potenziali difficoltà scaturenti dalla fase esecutiva.

Sulla base di tali considerazioni, un caveat è però d’obbligo. Quando si redigono clausole di risoluzione delle dispute internazionali, la sola clausola di mediazione di per sé non può essere sufficiente. E’ infatti comunque necessario scegliere un altro metodo di risoluzione delle controversie – contenzioso giudiziario o arbitrato – per il caso in cui le parti non siano in grado di addivenire amichevolmente ad un accordo transattivo.

 

Il presente contributo è stato redatto con la collaborazione del Dottor Rocco Ioia, praticante legale presso 3D Legal

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