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La normativa sull’equo compenso
I redditi degli avvocati sono in uno stato di crisi certificata. Per questa ragione il legislatore è intervenuto con la nuova normativa sull’“equo compenso”, ormai prossima all’entrata in vigore (al ddl a firma Meloni e Morrone manca solo l’approvazione in Senato).
Di fatto la nuova normativa reintroduce, con qualche limite, il sistema delle tariffe abrogato dalle liberalizzazioni a firma Bersani. In tutti i casi in cui il cliente dell’avvocato è un’impresa strutturata con più di 50 dipendenti o 10 milioni di ricavi, il compenso non può scendere sotto i valori stabiliti dal DM55/2014, come da ultimo modificato dal DM 147/2022.
È una normativa giusta? Sicuramente vuole rispondere a un problema reale, ossia l’impoverimento del ceto forense. Lo fa nel modo giusto? Difficile a dirsi. La soluzione scelta è quella di ridurre significativamente gli spazi di concorrenza, sebbene questo principio sia fondamento dell’Unione Europea e dell’ordinamento italiano (si veda da ultimo il nuovo Codice dei Contratti Pubblici, su cui mi permetto di rinviare al precedente editoriale).
Qualcuno potrebbe chiedersi se questa normativa sia legittima e se sia socialmente “equo” riservare ai professionisti una tutela che altri operatori economici non hanno, trovandosi quotidianamente a competere (anche) sul prezzo delle prestazioni offerte.
E qualcuno potrebbe chiedersi se questa normativa ha per avventura l’effetto di “chiudere” il mercato e ridurre le chance dei giovani di crearsi un loro giro di clientela proponendo compensi più competitivi di quelli degli avvocati affermati (l’osservazione non è mia ma dell’Antitrust italiana, che la formulò in relazione alla prima versione della normativa dell’equo compenso, v. segnalazione Antitrust del 27.11.2017). Se la risposta fosse positiva, significherebbe che la normativa sta in realtà danneggiando proprio quell’insieme di professionisti che il Rapporto Censis, nel 2022, ha indicato come quelli più in crisi.
I dubbi non sono pochi, ma forse il vero tema è un altro. Questa normativa affronta davvero le sfide più importanti per l’avvocatura di oggi?
Il dito e la luna
Vi sarà capitato -sennò vi prego di farlo capitare- di giocare con ChatGPT, il nuovo software di intelligenza artificiale che, per farla breve, sa tutto o quasi. Provatelo: non è ancora perfetto ma se gli chiedete di indicarvi le clausole tipo di un contratto di agenzia o di scrivere uno statuto standard di srl vi assicuro che rimarrete piuttosto colpiti dal risultato (e immaginate che ogni giorno migliora...).
I grandi player si stanno muovendo, più o meno dichiaratamente, per integrare l’intelligenza artificiale -e in specie la tecnologia GPT- nel loro lavoro (UK Law Firm_GPT).
Il futuro è arrivato e forse l’avvocatura dovrebbe svolgere una riflessione strutturale e prospettica su questo.
L’intelligenza artificiale è la punta dell’iceberg di un nuovo corso del mercato legale, nel quale la tecnologia avrà un impatto trasformativo e la sostenibilità cambierà definitivamente gli assetti di governance degli studi professionali.
Cosa succederà? Proviamo a fare delle ipotesi:
- gli studi legali dovranno investire sempre di più in tecnologia, in compliance, in risorse umane e in marketing. Per farlo serve però una certa massa critica, e questo spingerà le aggregazioni tra studi professionali, il coinvolgimento di investitori nel business dei servizi legali e immagino la creazione di società di servizi che sviluppino investimenti condivisi tra più studi professionali;
- la tecnologia cambierà il contenuto della prestazione legale, che diventerà in molte aree una “prestazione ibrida”: il servizio legale si accompagnerà a una prestazione digitale. Alcuni casi sono già osservabili per esempio in ambito compliance, dove studi legali forniscono assistenza in ambito 231 e allo stesso tempo concedono in licenza software per la gestione dei processi previsti nel modello organizzativo. Le implicazioni di un’offerta ibrida sono significative anche dal punto di vista del modello di business degli studi professionali, che potrebbe diventare molto più articolato;
- l’intelligenza artificiale è in grado di processare più dati di un essere umano, con una velocità non comparabile e a costi prospetticamente inferiori. Questo significa che in relazione a molti servizi legali l’intelligenza artificiale sarà preferibile a un avvocato. Ecco perché la scommessa dei giuristi è proprio quella di integrare l’intelligenza artificiale nel loro lavoro (piuttosto che essere integrati...) e di mantenere in ogni caso un ruolo di assurance rispetto all’output dei software.
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In questo contesto, l’equo compenso sembra quasi il dito per chi dovrebbe guardare alla luna: le istituzioni forensi e le associazioni di categoria bene faranno se concentreranno parte delle loro attività nell’offerta di formazione e di strumenti operativi a favore degli avvocati per far comprendere e aiutare a gestire la trasformazione in atto, evitando un’ulteriore proletarizzazione della professione.
L’equo compenso non può assicurare protezione in un mercato legale in cui i redditi degli avvocati sono già oggi divisi quasi 50/50 tra giudiziale e stragiudiziale e in cui:
A. la gestione dell’attività stragiudiziale -se i costi degli onorari dovessero incrementarsi in modo non proporzionale alla crescita dell’economia reale e degli stipendi dei lavoratori subordinati- potrebbe essere sempre più internalizzata dalle imprese, favorite proprio dal contributo della tecnologia (e se l’assistenza legale viene internalizzata, non c’è equo compenso che tenga);
B. i contenziosi -che sono l’unica area di attività riservata agli avvocati- vanno riducendosi da anni in modo significativo (v. Riduzione contenziosi) e, per altro verso, la normativa contiene previsioni che aprono in realtà a una riduzione degli onorari previsti dalle tabelle ministeriali fino al 50% in considerazione di aspetti che riguardano, tra l’altro, le caratteristiche dell’attività prestata e la complessità delle questioni trattate (articoli 4, 12 e 19). Su questa previsione è utile interrogarsi: è ragionevole pensare che l’utilizzo dell’intelligenza artificiale o di strumenti di automazione da parte del professionista incida sulle “caratteristiche” dell’attività prestata e sulla “complessità” delle questioni trattate tanto da determinare la legittimità di compensi ridotti del 50%? In casi del genere non si vedrebbe in effetti la necessità di tutelare un professionista rispetto alla pattuizione di compensi troppo bassi, quanto semmai l’opportunità di lodarlo per la capacità imprenditoriale dimostrata.
Ad avviso di chi scrive, l’equo compenso potrà anche avere qualche effetto palliativo ma la vera sfida dell’avvocatura è oggi quella di definire la sua nuova identità, da un lato forte del suo ancoraggio costituzionale ma dall’altro pronta a cambiare per governare trasformazioni già pienamente in atto.