16 Settembre 2019

Oltre l’equo compenso ci sono i robot

ALESSANDRO RENNA

Immagine dell'articolo: <span>Oltre l’equo compenso ci sono i robot</span>

Abstract

L’equo compenso è un tema di assoluta attualità, anche a seguito dell’istituzione del “Nucleo Centrale di Monitoraggio della corretta applicazione della normativa in materia di equo compenso” presso il Ministero di Giustizia lo scorso 23 luglio 2019 e, da ultimo, della menzione, all’art. 4 del Programma del nuovo Governo, della necessità, “nel rispetto dei princìpi europei e nazionali a tutela della concorrenza”, di “individuare il giusto compenso per i lavoratori non dipendenti, al fine di evitare forme di abuso e di sfruttamento in particolare a danno dei giovani professionisti, anche a tutela del decoro della professione”.

Sul tema la confusione regna sovrana, proviamo a fissare alcuni punti fermi.

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L’ambito di applicazione della normativa. Equo compenso e autonomia privata

Come noto, e già ricordato su queste colonne fin dal gennaio del 2018 (Primo editoriale equo compenso), la normativa in materia di equo compenso contiene essenzialmente due principi chiave:

a) diritto dell’avvocato a un “equo compenso”: si prevede l’obbligo di corrispondere in favore dell’avvocato un compenso “proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto nonché al contenuto e alle caratteristiche della prestazione legale e conforme ai parametri previsti dal regolamento di cui al decreto del Ministro della Giustizia …”;

b) nullità di talune clausole vessatorie ai danni dell’avvocato: si prevede un catalogo di clausole di cui viene stabilita la nullità soltanto a vantaggio del professionista (v. amplius nell’articolo citato).

Soffermandoci sul diritto a un equo compenso da parte dell’avvocato, la prima domanda che si pone l’interprete è se questo principio superi la previsione -contenuta nella legge professionale n. 247/2012, all’art. 13, terzo comma, secondo cui (evidenziazione nostra): “La pattuizione dei compensi è libera: è ammessa la pattuizione a tempo, in misura forfetaria, per convenzione avente ad oggetto uno o più affari, in base all'assolvimento e ai tempi di erogazione della prestazione, per singole fasi o prestazioni o per l'intera attività, a percentuale sul valore dell'affare o su quanto si prevede possa giovarsene, non soltanto a livello strettamente patrimoniale, il destinatario della prestazione”.

A ben vedere, la domanda trova una risposta molto semplice nella stessa normativa sull’equo compenso, inserita all’art. 13-bis della legge professionale, che ne delimita chiaramente l’ambito di applicazione. La norma in parola statuisce testualmente (evidenziazione nostra) che le previsioni in materia di equo compenso si applicano “nei rapporti professionali regolati da convenzioni aventi ad oggetto lo svolgimento, anche in forma associata o societaria” dell’attività professionale, “con riferimento ai casi in cui le convenzioni sono unilateralmente predisposte dalle predette imprese” (ossia, in sostanza, tutte le imprese con eccezione delle PMI).

Quindi la normativa sull’equo compenso non supera il principio dell’autonomia privata nella definizione del compenso professionale, salvo quando il compenso è stabilito all’interno di convenzioni unilateralmente predisposte da un’impresa “forte” ai danni di un avvocato in posizione di debolezza. In questa casistica -e soltanto in questa casistica- il legislatore ravvisa uno squilibrio di potere contrattuale meritevole di “correzione” normativa e di una deroga al generale principio che regola qualsiasi relazione tra domanda e offerta di beni e servizi.

Elusioni vs limiti della normativa sull’equo compenso. Il beauty contest

Nella narrativa presente sui mezzi di informazione, si tende a parlare di frequenti “elusioni” della normativa. Tra le condotte elusive -da ultimo vedi l’articolo di Cherchi in data odierna, pubblicato su Il Sole 24 Ore a pag. 8- si parla spesso di beauty contest con un livello di approssimazione molto importante.

Ad esempio l’articolo in questione -intitolato “Avvocati all’attacco: troppi tradimenti all’equo compenso”- inizia citando tra le doglianze degli avvocati la prassi degli “Incarichi conferiti attraverso la modalità del beauty contest, con conseguente gioco al ribasso degli onorari”. Poco dopo l’articolo è più preciso, citando il fatto che “il conferimento dell’incarico avviene attraverso il sistema dei beauty contest, per cui si chiede agli avvocati che partecipano alla selezione di presentare un’offerta al ribasso rispetto al prezzo di partenza. Il risultato è che spesso in questa maniera si aggira la soglia del compenso equo”.

Le considerazioni che precedono, citate testualmente, sollecitano alcune osservazioni sulla natura del beauty contest e sulla sua legittimità o meno rispetto alla normativa in materia di equo compenso.

Anzitutto, il beauty contest non è una gara al ribasso ma un confronto concorrenziale. Tipicamente il beauty contest prevede la comparazione di elementi qualitativi (esperienze, competenze, titoli, assetti organizzativi, peculiarità di approccio all’incarico ecc.) ed economici (onorari e spese) finalizzati alla scelta del miglior avvocato per un determinato incarico. Il migliore, non il più economico.

Stabilire un’equazione tra beauty contest e gara al ribasso è quindi semplicemente sbagliato da un punto di vista definitorio.

Diverso è il tema delle modalità di svolgimento del confronto concorrenziale, e cioè quali sono gli elementi oggetto di comparazione, quanto pesano quelli qualitativi e quelli economici, quali sono le modalità di formulazione dell’offerta economica richieste dal cliente. Quest’ultimo profilo è quello oggetto della seconda (e più precisa) censura di Cherchi, laddove parla della richiesta “agli avvocati che partecipano alla selezione di presentare un’offerta al ribasso rispetto al prezzo di partenza”, con ciò provocando un aggiramento della “soglia del compenso equo”.

Questa censura ci trova almeno parzialmente d’accordo: in effetti, un beauty contest nel quale venga fissato un importo massimo rispetto al quale formulare offerte al ribasso presenta quel grado di “imposizione” ai danni dell’avvocato che la norma vuole impedire ed è a nostro avviso censurabile. In effetti, il cliente non impone un compenso -come nel tradizionale sistema delle “convenzioni”, oggi quanto mai a rischio- ma fissa un massimo, il ché rientra nelle condotte che la normativa vuole evitare.

Del tutto diverso è tuttavia il caso in cui il cliente chieda ai professionisti invitati a un beauty contest di formulare un’offerta libera, senza alcuna imposizione o “tetto”. In questo caso, il compenso viene determinato liberamente dalle parti in un’ottica puramente negoziale e di mercato: si torna alla previsione generale dell’art. 13 della legge professionale n. 247/2012 e quindi a un’autonomia privata non comprimibile.

Un beauty contest di questo tipo non pone alcuna criticità -allo stato attuale- rispetto alla normativa in materia di equo compenso: da un punto di vista oggettivo siamo al di fuori del sistema delle convenzioni unilaterali e anche al di fuori di qualsiasi “imposizione”.

Nulla quaestio, verrebbe da dire, a meno di voler ritenere che gli avvocati abbiano diritto a un compenso “garantito” al di fuori di una logica concorrenziale di mercato.

Il Programma del Governo “rosso-giallo”

In questo contesto, il Governo appena insediato ha inteso dare un segnale di attenzione e vicinanza alle aspettative del ceto forense, dimostrando -anche in forza della conferma di Alfonso Bonafede al Ministero della Giustizia- di voler mettere il tema del compenso dei lavoratori non dipendenti, e quindi dei professionisti, specie giovani, tra gli argomenti di riforma.

Più nel dettaglio, al punto 4 del Programma, si legge che “Occorre: … d) nel rispetto dei princìpi europei e nazionali a tutela della concorrenza, individuare il giusto compenso per i lavoratori non dipendenti, al fine di evitare forme di abuso e di sfruttamento in particolare a danno dei giovani professionisti, anche a tutela del decoro della professione”.

La formulazione utilizzata dal Governo, che pensiamo sia particolarmente consapevole data la caratura e formazione del Presidente del Consiglio, evidenzia alcuni aspetti molto significativi:

  1. gli interventi normativi in materia di compenso dei professionisti devono avvenire nel rispetto dei principi europei e nazionali a tutela della concorrenza;
  2. l’obiettivo degli interventi normativi deve essere quello di evitare forme di abuso e di sfruttamento, con focus sui giovani professionisti e attenzione per il decoro della professione;
  3. il compenso da individuare non è più definito come “equo” ma come “giusto”.

Salva verifica strada facendo, il programma del Governo sul tema in esame sembra quindi quello di confermare l’obiettivo di proteggere una possibile posizione di debolezza dei professionisti (abuso/sfruttamento) e tutelare l’importanza della professione (decoro) ma non di uscire da una logica concorrenziale di mercato.

A quest’ultimo riguardo, merita ricordare quanto critica sia la posizione dell’AGCM sulla odierna normativa in materia di equo compenso: Antitrust su equo compenso. L’Autorità, chiamata nel 2017 ad esprimere un parere (non vincolante) sulla normativa dell’equo compenso ante pubblicazione, afferma invero che “Secondo i consolidati principi antitrust nazionali e comunitari, infatti, le tariffe professionali fisse e minime costituiscono una grave restrizione della concorrenza, in quanto impediscono ai professionisti di adottare comportamenti economici indipendenti e, quindi, di utilizzare il più importante strumento concorrenziale, ossia il prezzo della prestazione”.

Conclusioni

Il modesto contributo che precede mira a fare chiarezza su alcuni profili di ambiguità presenti oggi nella cronaca (e nella narrativa) in materia di equo compenso, specie con riferimento a una presunta elusività del beauty contest in quanto tale.

La prospettiva di un’avvocatura minoritaria che cerca di ottenere un compenso “garantito” al di fuori di situazioni di squilibrio di forze, di abusi e di sfruttamenti, è a nostro avviso antistorica, non fondata (oggi) su norme di diritto positivo e in prospettiva perdente in un contesto di mercato. Qui non è in ballo l’importanza di una professione tutelata costituzionalmente, né lo sono le competenze acquisite in anni e anni di duro lavoro.

Il vero “problema” -se così lo vogliamo chiamare- si chiama innovazione e riguarda tutti i mercati e tutti i settori.  La vera sfida per l’avvocatura, specie nella sua componente più giovane, riguarda la capacità di riuscire a stare in un mercato sempre più complesso, esigente, digitale e internazionale. Lo sforzo deve essere concentrato nel far capire il valore della prestazione legale, sempre più ritagliata sulle necessità del cliente, sempre più efficiente e sempre più competitiva.

Non è una situazione semplice, ma soffermarsi oltremodo sull’equo compenso quando in molti ambiti il lavoro degli avvocati lo fanno già i robot… non è probabilmente un approccio ideale nell’interesse della categoria.

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