L’importanza della gender equality
Tra gli impegni sottoscritti nel 2015 dai 193 Paesi membri dell’ONU, che hanno dato vita all’Agenda 2030, al numero 5 (Sustainable Development Goal 5) troviamo l’obiettivo dell’uguaglianza di genere. Ancora oggi donne e ragazze continuano a subire discriminazioni e violenze in gran parte del mondo e questo fa della parità di genere non solo un diritto umano fondamentale da garantire, ma anche una condizione indispensabile per uno sviluppo sostenibile. Soltanto la parità di accesso all’istruzione, alle cure mediche, al lavoro, così come la rappresentanza femminile nei processi decisionali, politici ed economici, sono in grado di assicurare economie sostenibili sul medio-lungo periodo. Con lo stesso obiettivo nasce anche la Strategia per la parità di genere 2020-2025 dell’UE, che presenta e racchiude le azioni e l’impegno della Commissione von der Leyen per garantire la parità di genere in Europa. Le strategie messe in atto dalla Commissione si concentrano su cinque settori considerati come prioritari e indicativi:
- aumentare la partecipazione delle donne al mercato del lavoro e l'indipendenza economica di donne e uomini;
- ridurre il divario in materia di retribuzioni, salari e pensioni, anche per combattere la povertà femminile;
- promuovere la parità tra uomo e donna nel processo decisionale;
- combattere la violenza di genere, così come proteggere e sostenere le vittime;
- promuovere la parità di genere e dei diritti delle donne in tutto il mondo.
Il report 2023 dell’UE sull’uguaglianza di genere
Da poco è stata pubblicata la relazione annuale 2023 sulla parità di genere, la terza nell’ambito della Strategia 2020-2025, che fotografa la situazione dell’Unione e nei singoli Stati membri in questo ambito. I risultati che emergono, purtroppo, non sono così incoraggianti. Durante la pandemia di COVID-19, infatti, si è registrato un netto aumento dei casi di violenza domestica in tutta l'UE. Inoltre, le donne sono coloro che economicamente hanno sofferto di più durante la crisi sanitaria e questo ha contribuito ad aumentare la dipendenza delle donne da partner violenti. I dati mostrano che il 77 % delle donne in tutta l’UE ritiene che la pandemia di COVID-19 abbia portato a un aumento della violenza fisica ed emotiva contro le donne nel proprio Paese. Secondo uno studio dell’EIGE (European Institute for Gender Equality), il costo stimato della violenza di genere nell’UE è pari 366 miliardi di euro nel solo 2021 e di 49,1 miliardi di euro per la sola Italia.
Anche per quanto concerne le disuguaglianze economiche il Report 2023 non è molto rassicurante. Il divario occupazionale tra uomini e donne è calato solo di 1,7 punti percentuali negli ultimi 10 anni, rimanendo pari a 10,8 punti percentuali nel 2021 (era di 12,5 punti percentuali nel 2011), ancora molto lontano dall’obiettivo di 5,6 punti percentuali fissato dalla Commissione per il 2030. Le situazione non è migliorata neppure per quanto riguarda la differenza retributiva tra uomini e donne. Secondo gli ultimi dati del 2021, il divario retributivo di genere (GPG) a livello dell'UE si attesta al 12,7%, dopo essere diminuito rispetto al 14,4% del 2018. Ciò significa che nell'UE le donne guadagnano in media solo 0,83 euro per ogni euro guadagnato da un uomo. Il GPG è diminuito in tutti i paesi tranne Ungheria, Romania e Portogallo, mentre il Lussemburgo è il primo paese a registrare un GPG leggermente negativo del -0,2%. I dati però testimoniano solo un calo del 3,5% nel divario retributivo negli ultimi 10 anni.
Permane anche una forte segregazione di genere nell’UE, vale a dire la distribuzione ineguale di donne e uomini, tra settori, professioni e campi di studio. Quest’ultima è spesso collegata a stereotipi di genere che restringono le scelte di vita e le possibilità di istruzione e occupazione. Ciò contribuisce ad alimentare il divario retributivo di genere, a limitare l’accesso a determinati posti di lavoro e a perpetuare relazioni di potere di genere ineguali nella sfera pubblica e privata, rafforzando ulteriormente gli stereotipi di genere. Le donne, inoltre, rappresentano circa il 90% della forza lavoro di cura (pagato e non), motivo per cui la gravidanza costituisce ancora un ostacolo nel perseguimento della carriera professionale, cosa che non accade per l’uomo.
Il Global Gender Index del 2022 ha stimato che all'attuale ritmo di progresso, ci vorranno 132 anni per raggiungere la piena parità e colmare il divario di genere complessivo su scala globale. Anche l’Indice sull’uguaglianza di genere 2022, presentato dall'Istituto europeo per l’uguaglianza di genere nell’ottobre 2022, ha dipinto un quadro fosco sulla base dei dati del 2020: per il primo anno dal suo inizio nel 2013 l’indice avrebbe mostrato una tendenza negativa se non fosse stato per i piccoli progressi compiuti nell'area della leadership. Ciò è dovuto, almeno in parte, all’approvazione della direttiva sull’equilibrio di genere nei consigli di amministrazione delle imprese nelle principali società quotate dell’UE. Ci sono voluti 10 anni di negoziati prima che la direttiva venisse adottata il 22 novembre 2022.
Cosa possono fare le direzioni legali e gli studi professionali per ridurre il gender gap?
Difronte a dati così allarmanti anche le direzioni legali aziendali, gli studi professionali così come tutti i player del mondo legal, possono e devono giocare un ruolo chiave nel promuovere la parità di genere e l’inclusione nella società. Per questi motivi, è indispensabile adottare e implementare policy idonee allo scopo. Non basta più dirsi sostenibili, ma occorre dimostrare la propria compliance ai principi ESG. Con questo obiettivo nasce il servizio di ESG Accreditation per direzioni legali e studi professionali e in particolar modo l’elemento S1, che valida l’introduzione di una policy volta a perseguire la parità di genere, i cui possibili contenuti riguardino la formalizzazione di procedure di selezione, remunerazione e crescita basate sulle pari opportunità, l’introduzione di misure volte a favorire il work-life-balance, la maternità e una gestione delle risorse umane inclusiva e non discriminante. Sotto questo punto di vista sono molti gli studi professionali che si sono mostrati sensibili in materia di empowerment femminile a dimostrazione del fatto che la sensibilità sul tema è ampia, ma la strada è ancora lunga ed è necessario il contributo di tutti per quella che è prima di tutto una rivoluzione culturale.
La testimonianza degli studi del nostro network
Abbiamo intervistato le avvocate di alcuni studi che hanno validato l’item S1 e abbiamo chiesto loro in che modo lo studio favorisce la parità di genere, quali misure sono state implementate e come il percorso di ESG Accreditation avviato con 4cLegal, che ha portato all’accreditamento anche dell’elemento relativo alla parità di genere, abbia aiutato a indirizzare meglio gli sforzi in questo campo.
«Il contesto della BMV law tax finance è sin dalla sua origine proiettato alla parità di genere», racconta Margherita Barletta, avvocata presso BMV law tax finance, «e a riprova di questo si pensi che negli ultimi mesi sono entrate come partner altre tre donne e l’unica assunzione fatta è stata in favore di una donna. Sicuramente l’adesione ai criteri ESG ci ha spinti a puntare l’attenzione su problematiche differenti e prima mai affrontate, difatti uno dei nostri obiettivi è ottenere la certificazione di genere “PdR 125:2022” entro la prima metà del 2024».
Elena Felici, avvocata presso LCA Studio Legale, evidenzia come lo studio sia «il primo in Italia – e una delle prime tre realtà italiane in assoluto – ad avere ottenuto lo scorso luglio la certificazione della parità di genere. Un traguardo più che simbolico e anzi molto concreto, che ci ha riempito di orgoglio. Anche il processo di accreditamento ci ha aiutato nell’elaborare una strategia olistica, fondata non su iniziative slegate ma piuttosto su dati e obiettivi precisi, con una prospettiva a lungo termine».
Il rispetto della parità di genere viene sottolineato anche da Chiara Fiore, Amministratore unico e Managing Partner della Ambiente Legale S.r.l. STA., che sottolinea come ciò sia frutto degli «strumenti organizzativi utilizzati per poter garantire una trasparenza nella progressione di carriera all’interno della società. Ne è plastica conferma la nomina di una donna come Managing Partner. Anche gli incarichi dirigenziali sono incardinati su figure femminili». Al centro viene posto il concetto di trasparenza, essendo lo studio «dotato di un regolamento societario firmato da tutti i suoi componenti nel quale sono descritti con precisione gli avanzamenti di carriera all’interno della società e gli indici di performance basati sulla qualità del lavoro svolto e dal grado di autonomia raggiunto, a prescindere dal sesso». Fiore mostra come non abbiano «sentito la necessità di creare delle misure specifiche per la tutela della parità di genere, essendo lo studio formato per il 70% da donne - e ci piace poter affermare ciò in virtù del fatto che le regole dello studio sono create volendo privilegiare il merito», concentrando invece gli sforzi «nella ricerca di strumenti atti a garantire un buon livello di work-life bilance tematica senza alcun dubbio di forte interesse a prescindere dal sesso e che di certo punta ad una sempre maggiore inclusività nella contemperazione dei due assi cardinali lavoro e vita privata senza che si creino discriminanti con riguardo alle esigenze di vita di ognuno (le esigenze di chi ha figli non sono più importanti di chi è solo ma hanno tutte pari dignità)». L’avvocata ritiene come il percorso di ESG Accreditation avviato con 4cLegal abbia «acuito i sensi circa le tematiche sociali e relazionali, aprendoci gli occhi rispetto a delle disparità di genere e ai pregiudizi ad essa connessi, che forse appartengono più agli studi legali in senso stretto, dove tutto viene fagocitato dal dominus a discapito del riconoscimento dei collaboratori».
Un’altra problematica importante è quella relativa al gender pay gap. Di fatto, sebbene il numero di avvocati donne sia quasi uguale a quello degli uomini, una donna guadagna in media meno della metà rispetto al suo collega. Abbiamo chiesto perché nel mondo forense ci sia ancora un pay gap così ampio e come si può intervenire a livello sistemico.
Barletta evidenzia come «questa problematica può dipendere da tanti fattori, in primis il ruolo della donna nella nostra cultura, e dunque il tempo che un avvocato donna dedica alla famiglia rispetto ad un avvocato uomo, con la necessaria riduzione del numero dei clienti, oppure dalla practice scelta (ad esempio la materia del diritto di famiglia è scelta da avvocati donne, che a loro volta sono scelte da clienti donne che spesso usufruiscono del gratuito patrocinio), mentre gli uomini sono generalmente orientati ad aeree del diritto più remunerativi». Inoltre, «fermo restando che nel contesto BMV si persegue la parità del trattamento economico, dell’equità e della meritocrazia, a livello sistemico si potrebbe partire dall’ affermazione della parità di uomini e donne, madri e padri, single e non ed attuare misure tutelanti, es. sanzioni per l’azienda o law firm che non applica gli stessi criteri per le competenze di uomini e donne, nonché attuare strumenti tali per cui vi sia una automatica revisione del corrispettivo. Ma soprattutto le donne devono avere il coraggio di non accontentarsi e far sentire la propria voce e superare questo gap».
Il ruolo centrale della cultura viene menzionato anche da Felici: «L’inclusione è prima di tutto un processo culturale, che per sedimentarsi in modo organico necessita ancora di tempo, soprattutto in un contesto come l’Italia. Il divario tra i compensi delle avvocate e quello dei colleghi uomini– a parità di competenze – è la conseguenza di stereotipi ancora molto presenti soprattutto sul piano della progressione di carriera e delle specializzazioni (anche la nostra professione ha le sue materie ‘stem’ come il diritto societario, finanziario, amministrativo, campi nei quali le remunerazioni sono in genere più elevate, per esempio). Tra le misure da introdurre c’è senz’altro l’obbligo di assoluta trasparenza retributiva, l’introduzione del congedo di paternità e, cosa più importante, garantire alle giovani avvocate – e ancora prima forse, alle studentesse di giurisprudenza – sempre più esempi virtuosi di donne di successo che promuovono un modello di leadership al femminile».
Fiore mostra come tra le cause vi sia «in primo luogo, senza dubbio, che le donne scontano un ingresso più tardo – negli anni - nella carriera forense rispetto agli uomini; ne deriva un gap temporale -ancor prima che economico- rispetto all’affermazione di una posizione di rilievo nel mercato dell’avvocatura rispetto ai colleghi uomini. A conforto giungono i dati riportati dalla rivista pubblicata dalla Cassa Forense in base ai quali la prima iscrizione all’albo professionale di una donna è avvenuta solo nel 1919. Devo purtroppo constatare che, la riconduzione della professione forense, nell’immaginario collettivo, ad una figura maschile -più che femminile- è ad oggi ancora fortemente radicata nella nostra società anche al di fuori delle aule di tribunale.Ne è plastica conferma il linguaggio comune utilizzato in un qualsiasi dialogo con un cliente nel quale non è infrequente che la donna venga appellata come “signorina” o “dottoressa” mentre il suo corrispettivo maschile sia automaticamente “Avvocato” a prescindere dall’abilitazione o meno del soggetto. Questo retaggio culturale è ovviamente tanto più radicato quanto più sale l’età dell’interlocutore poiché non appartiene ad un passato lontano la preclusione alle donne -anche solo nei fatti- rispetto a determinate professioni. Sensibilizzare ed informare sono senza dubbio delle azioni importanti da intraprendere a livello sistemico».