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I rapporti nei Centri Commerciali
Il Centro Commerciale è una figura a tutti nota, diffusasi in Italia dagli anni ’70 del secolo scorso e che ancora oggi mantiene una primaria importanza nel mercato, nonostante l’avanzare incalzante dell’e-commerce. Le imprese che vengono esercitate nel CC sono e devono essere connesse con la società che lo gestisce, e, da un punto di vista giuridico, tale connessione si può atteggiare in maniera differente.
Si è notato che il rapporto che lega il proprietario/gestore del CC con la singola società che utilizzerà il negozio è solitamente ricondotto all’affitto di ramo d’azienda ovvero alla locazione commerciale. Tali strumenti contrattuali sono quelli emersi dalla prassi come i più diffusi, sebbene abbiano significative diversità tra loro e, proprio per questo, vengono talvolta utilizzate anche per fini illeciti o illegittimi. È nota infatti la maggiore elasticità negoziale che garantisce il contratto di affitto d’azienda, rispetto al più rigido (ex L. 392/1978) contratto di locazione commerciale, senza contare il differente trattamento fiscale.
Ciò ha determinato il verificarsi di taluni casi in cui il rapporto tra le parti sia stato formalmente ricondotto all’affitto d’azienda, benché la sostanza fosse invece indirizzata verso un più canonico contratto di locazione. È il caso, ad esempio, sottoposto all’attenzione della Cassazione con sentenza n. 3888/2020. Giova approfondire la questione, poiché il chiaro pronunciamento agevola la comprensione del discrimine tra le due figure contrattuali.
Le differenze
Vari sono gli aspetti analizzati dalla Cassazione, in un caso in cui i giudici di merito avevano ritenuto sussistente un contratto di affitto d’azienda sulla scorta di vari indici, tra cui la collocazione del bene all’interno del CC, la possibilità di sfruttare delle attrezzature, il diritto di ricevere i servizi ecc. Il primo tema che rileva è il nomen iuris dato dalle parti al loro accordo: come noto, la qualificazione giuridica della fattispecie spetta al giudice, sicché esso è irrilevante; né possono valere ulteriori comportamenti. Pertanto, l’indicazione fornita dalle parti, così come altri seppur connessi comportamenti delle stesse, non vincolano il giudice, che invece è onerato di verificare l’effettiva qualificazione dell’accordo raggiunto.
Detto ciò a mo’ di premessa, la Corte si concentra sul punto fondamentale, ovverosia i criteri che consentono la distinzione tra affitto d’azienda e locazione commerciale, rivenendoli nel concetto stesso di azienda e nella sua natura. È nota la definizione che il Codice Civile ne dà all’art. 2555, secondo cui “l’azienda è il complesso di beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa”. Secondo illustri precedenti della Cassazione, l’azienda rileva quale oggetto di diritti, sebbene – e allo stesso tempo – come strumento connotato da organizzazione. In altri termini, ciò che assume rilievo è il complesso dei beni, unitariamente considerati, e la loro organizzazione orientata all’esercizio d’impresa. Sono dunque due gli indici che rappresentano l’azienda: i beni assurgono ad azienda, e sono quindi oggetto di diritti e di tutela, non perché universitas, ma proprio perché organizzati.
Proseguendo il proprio ragionamento, la Corte giunge a ritenere che anche nella circolazione dell’azienda la caratteristica dell’organizzazione è imprescindibile, tale per cui è necessario verificarne la presenza (anche) al fine di distinguere le due figure contrattuali di affitto e di locazione commerciale. Invero, per potersi dire concluso un contratto di affitto d’azienda, è necessario che questa sia preesistente, e che quindi i beni oggetto del contratto siano organizzati finalisticamente e come tali ceduti al terzo. La preesistenza, tuttavia, è differente rispetto attualità, poiché la produttività dei beni ben può essere potenziale, ma comunque deve essere, a questi fini, impressa dal cedente.
In estrema sintesi, dunque, ciò che conta è che nel complesso di beni ceduti vi sia e permanga una seppur minima organizzazione che ne dimostri l’attitudine, per quanto potenziale, all’esercizio dell’impresa. Al contrario, ove oggetto dell’accordo siano solo singoli beni, per quanto complessivamente considerati ai fini negoziali, ma privi in quanto tali di una organizzazione produttivistica, che sarà invece apportata dall’avene causa, ebbene allora si avrà un contratto di locazione commerciale, se del caso accompagnato da pattuizioni accessorie.
Il negozio e gli altri servizi
La differenza può notarsi anche sotto un ulteriore punto di vista: mentre l’immobile è solo uno dei beni (organizzati) che sono ricompresi nell’azienda oggetto di cessione, esso è in posizione all’evidenza centrale negli assetti locatizi. Questi ultimi ben possono quindi prevedere ulteriori corollari che vanno a migliorare il godimento dell’immobile. Tra questi possono ricondursi i benefici connessi alla collocazione all’interno del CC dell’immobile oggetto di contratto. Ancora una volta, però, la Corte sottolinea come tale circostanza non è sintomatica di un affitto d’azienda, poiché la mera collocazione fisica nulla dice circa l’esercizio di una attività da parte del cedente. Sul punto, infatti, occorre ricordare l’assunto per cui l’avviamento dell’attività esercitata in un CC non deriva unicamente e direttamente dalla sua peculiare collocazione, dovendosi avere riguardo alla capacità del singolo commerciante di attrarre clientela.
In conclusione, pertanto, occorre dire che l’aspetto organizzativo dei beni ceduti sia centrale nell’appurare la figura contrattuale: se vi è un complesso di beni organizzati, questo forma un’azienda; ma ulteriormente, occorre altresì verificare se l’intenzione delle parti sia stata quella di trasferire il godimento del complesso organizzato o solo di un singolo bene immobile, accompagnato da beni e servizi strumentali. Ricondurre questi indici al caso concreto, però, può non essere del tutto agevole.