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È alto il rischio di assegnare un significato simbolico a qualunque evento della vita. Se questo accade, quell'evento smetterà di essere ciò che è realmente e finirà col diventare tante altre cose che nulla hanno a che vedere con il fatto originario, ormai smarrito, perché immerso nell’oceano del simbolo.
Questo meccanismo può riguardare anche il processo, soprattutto se le parti sono persone fisiche. È frequente, infatti, che una controversia cambi pelle col passar del tempo, man mano che il processo va avanti. Questo accade perché le parti cominciano ad assegnare a quel giudizio un significato simbolico, dimenticando gli obiettivi che si erano proposte all’inizio e caricando il processo di tutta una serie di significati che esulano completamente dall’obiettivo originario. Il giudizio, in tal modo, viene trasformato in un vero è proprio confronto tra bene e male, ma il sistema giudiziario non è strutturato per dare questo tipo di risposte.
Nell’universo simbolico conta l’autoaffermazione, il bisogno di rivalsa e tutto il corteo delle frustrazioni che le parti si portano dietro; ma il sistema giudiziario non potrà mai soddisfare questo genere di aspettative. E le parti avranno perso l’occasione di conseguire il risultato che giustamente si erano prefissate.
La dinamica di questo fenomeno è ben descritta dal famoso film americano “Fuga per la vittoria”, che racconta la partita di calcio disputata nella Francia occupata tra una selezione di prigionieri alleati e la squadra del reggimento tedesco.
Come per il processo, infatti, anche una partita di calcio può essere trasformata in un confronto tra la vita e la morte.
Inizialmente, i prigionieri alleati non vogliono giocare la partita. Poi, però, comprendono che questa può offrire l’occasione per organizzare la fuga tra il primo e il secondo tempo. Ecco l’obiettivo concreto: ha senso giocare questa partita, perché consentirà la fuga.
Ma cosa succede? Succede che, una volta iniziato l’incontro, i giocatori alleati subiscono un ingiusto passivo e allora, quando nell’intervallo giungerà l’ora di fuggire, si rifiuteranno di farlo, perché prevarrà in loro la voglia di ribaltare il risultato… Torneranno in campo per disputare il secondo tempo, rinunciando alla fuga.
I prigionieri alleati, quindi, hanno dimenticato il loro obiettivo originario e si sono fatti risucchiare nel mondo simbolico del confronto tra bene e male.
Questo capita anche nei processi. Per quanto le parti vengano messe in guardia sui rischi che presenta il mondo simbolico, non c’è niente da fare, avviene come per le partite di calcio: si trasformano spesso nella partita della vita e si va fatalmente incontro alla morte.
Ma c’è anche un altro rischio, oltre a quello della morte: il ridicolo.
Ci aiuterà a comprenderlo il celebre film di Monicelli “L’armata Brancaleone”.
Il meccanismo della risata si gioca qui essenzialmente nel contrasto stridente su cui ogni scena è strutturata: da una parte, infatti, sta l’evidenza scalcinata che caratterizza tutte le situazioni e muove tutti i personaggi, palesemente codardi e meschini; dall’altra parte, Brancaleone si muove su questo palcoscenico miserabile e grottesco con un contegno cavalleresco purissimo, addirittura sacerdotale, come se intorno a lui la realtà fosse nobile e meritevole del più alto riguardo.
Questo meccanismo è costante e vale per ogni circostanza: Brancaleone sta su un cavallo che è un ronzinaccio vigliacco, resiste ad una giovane donna per mantenerne integre le virtù (salvo poi scoprire che la ragazza si dà ad altri senza particolari scrupoli), spinge alla battaglia una banda di pusillanimi che fuggono immediatamente, lasciandolo solo a combattere.
Insomma, per farla breve, Brancaleone vive e si muove in una realtà che vede solo lui, che sta solo nella sua testa e nella sua immaginazione. Brancaleone gioca la sua esistenza all’interno di una percezione del reale del tutto distorta, per cui l’ingenua purezza e la nobiltà delle sue azioni e delle sue parole - riversandosi tutte in un contesto lercio e corrotto - finiscono per rivelarsi grottesche.
Quante volte le parti di un processo si comportano come Brancaleone da Norcia. Quante volte, cioè, si illudono di lottare per i destini del mondo mentre si muovono nell’ambito di questioni di piccolissimo cabotaggio, minime e meschine.
Quante volte una controversia - vista dal di fuori - si presenta grottesca, mentre le parti indossano armature e movenze cavalleresche, per difendere vergini che tali non sono o per affermare ideali in cui nessuno crede.
Il problema è che troppo spesso ci si prende sul serio, anche contro la più spietata evidenza, e ciò avviene per un misto di vanità e di ingenuità. Ci piace crederci cavalieri anche quando siamo degli straccioni, montare su un brocco credendolo un purosangue, contornarci di argomenti che meriterebbero solo compassione.
Gli altri ridono, è vero, ma noi puntualmente cadiamo nella fossa dei Saraceni.