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La pandemia che stiamo vivendo ci ha imposto di riconsiderare i nostri stili di vita e le nostre abitudini.
Tra queste, in particolare, le abitudini di acquisto di beni e servizi impattate dalla chiusura dei negozi e dalla clausura domestica.
In tale contesto, il commercio elettronico è divenuto il canale principale per continuare ad acquistare prodotti e servizi pur nel rispetto degli obblighi, morali prima che di legge, del confinamento casalingo. In tale contesto è noto che i marketplace abbiano assunto un ruolo preminente consentendo a venditori e acquirenti di tutto il mondo di poter compravendere beni e servizi. Tuttavia, i marketplace rappresentano sempre più spesso un “luogo” virtuale in cui è possibile reperire prodotti contraffatti. Pertanto, ci si domanda sempre più spesso se tali mercati digitali possano essere considerati (co)responsabili delle violazioni di diritti di proprietà industriale che sono poste in essere su tali piattaforme da venditori terzi.
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, con sentenza del 2 aprile 2020, ha fornito importanti chiarimenti in esito al procedimento che ha visto contrapposte le società Coty, azienda che distribuisce profumi e licenziataria del marchio dell’Unione europea “DAVIDOFF” (registrato per i prodotti “profumeria, oli essenziali, cosmetici”) e Amazon Services Europe che, come noto, è una delle società facenti parte del gruppo Amazon.
In tale marketplace, i contratti di vendita aventi ad oggetto i prodotti offerti in vendita su Amazon da parte di venditori terzi sono stipulati direttamente tra tali venditori terzi e gli acquirenti.
I venditori terzi che usufruiscono di Amazon Marketplace hanno inoltre la possibilità di partecipare al programma “Logistica di Amazon”, nell’ambito del quale i prodotti sono conservati da società del gruppo Amazon presso i propri depositi (nel caso in commento, in un deposito gestito da Amazon FC Graben) in attesa di essere spediti.
Nel 2014, Coty rinveniva, tramite il sito Internet www.amazon.de, un flacone di profumo “Davidoff Hot Water EdT 60 ml” offerto in vendita da un venditore e spedito dal gruppo Amazon nell’ambito del programma summenzionato.
Coty inviava dunque una lettera di diffida a tale venditore (sostenendo come i diritti conferiti dal marchio “Davidoff” non potessero ritenersi esauriti, non trattandosi di prodotti immessi in commercio nell’Unione con detto marchio dal titolare o con il suo consenso) e quest’ultimo si impegnava ad astenersi dal commercializzare i prodotti oggetto di contestazione.
Coty inviava inoltre una lettera ad Amazon Services Europe invitandola a recapitarle tutti i flaconi di profumo recanti il marchio oggetto di contestazione e stoccati per conto del venditore. Amazon Services Europe inviava a Coty un pacco contenente 30 flaconi di profumo.
Coty veniva informata, da un’altra società appartenente al gruppo Amazon, che 11 dei 30 flaconi inviati provenivano dalle scorte di un altro venditore. Ritenendo che il comportamento di Amazon Services Europe, da un lato, e quello di Amazon FC Graben, dall’altro, violassero il diritto sul marchio “Davidoff”, Coty ha agito in giudizio, in Germania, al fine di ottenere un provvedimento giudiziale che imponesse alle predette società di astenersi dallo stoccare o spedire, o far stoccare o far spedire, in Germania, profumi recanti il marchio Davidoff Hot Water (se tali prodotti non fossero stati immessi in commercio nell’Unione con il suo consenso) domandando, inoltre, che le medesime società fossero condannate per l’attività di stoccaggio e offerta in vendita, per conto di entrambi i venditori terzi dei profumi del marchio Davidoff Hot Water EdT 60 ml coinvolti nella vertenza.
Dopo essere risultata soccombente sia nel giudizio di primo grado, sia nel procedimento di appello svolti in Germania, Coty proponeva dunque ulteriore ricorso dinnanzi alla Corte Federale di Giustizia tedesca (c.d. “Revision”).
La corte adita, al fine di dirimere la controversia si è domandata se l’attività di un soggetto (quale Amazon) che conservi per conto di un venditore terzo prodotti che violano un diritto di marchio e che non sia a conoscenza della violazione del diritto di marchio, ma si limiti ad effettuare lo stoccaggio di tali prodotti ai fini della loro offerta o della loro immissione in commercio, da parte di un venditore terzo, possa essere considerata in violazione dei diritti del titolare di un marchio UE.
Di tale questione interpretativa è stata investita la Corte di Giustizia la quale ha avviato il suo ragionamento partendo dalla considerazione che il marchio dell’Unione europea conferisce al suo titolare il diritto esclusivo di vietare a qualsiasi terzo di usare nel commercio un segno identico a tale marchio per prodotti o servizi identici a quelli per cui esso è stato registrato, o un segno che, a motivo della sua identità o somiglianza con il marchio dell’Unione europea e dell’identità o somiglianza dei prodotti e dei servizi contraddistinti da tale marchio e dal segno, possa dare adito a un rischio di confusione per il pubblico.
La Corte, in particolare, ha ricordato come l’articolo 9, paragrafo 2, del regolamento n. 207/2009, e l’articolo 9, paragrafo 3, del regolamento 2017/1001 prevedono espressamente, nell’elenco non tassativo di usi del marchio vietato, l’offerta dei prodotti, la loro immissione in commercio oppure il loro stoccaggio a tali fini.
Partendo dalla premessa sopra descritta, la Corte si è quindi domandata se l’attività di “stoccaggio” dei prodotti rappresentasse o meno un uso del marchio ai fini dell’offerta o dell‘immissione in commercio ai sensi delle citate norme.
L’articolato ragionamento della Corte si è mosso, in prima battuta, dalla definizione di uso del marchio sottolineando (anche attraverso il richiamo a precedenti decisioni della medesima Corte) come tale verbo, nella sua accezione abituale, implichi un comportamento attivo e un controllo, diretto o indiretto, sull’atto che costituisce l’uso.
In secondo luogo, la Corte ha ricordato come le disposizioni di legge citate menzionino specificamente “l’offerta di prodotti, la loro immissione in commercio, il loro stoccaggio a tali fini” giungendo a ritenere che il magazzinaggio di prodotti rivestiti di segni identici o simili a marchi UE registrati possa essere qualificato come “uso” di tali segni, solo qualora l’operatore economico che effettua tale magazzinaggio persegua in prima persona le finalità di offerta dei prodotti o della loro immissione in commercio.
La Corte ha concluso il proprio ragionamento sostenendo come, nel caso di specie, le società convenute del gruppo Amazon non avessero offerto in vendita o immesso in commercio i prodotti oggetto di contestazione, ma che, al contrario, gli unici soggetti interessati a tale attività di offerta in vendita e immissione in commercio fossero solo i terzi venditori.
Pertanto, la Corte ha concluso che le società del gruppo Amazon citate in giudizio da Coty non potessero essere considerate responsabili per la violazione dei marchi “Davidoff”.
La recente decisione della Corte di Giustizia si allinea alle precedenti pronunce con cui la Corte ha sanzionato l’attività dei gestori di mercati digitali solo qualora vi fosse la consapevolezza di ospitare, all’interno del proprio mercato, l’offerta in vendita di prodotti in contraffazione a prescindere dalla circostanza che tali prodotti siano conservati presso i magazzini del gestore.
Le conclusioni della Corte potrebbero, tuttavia, apparire poco condivisibili. Difatti, subordinare la sanzionabilità dello stoccaggio di merci contraffatte alla conoscenza dell’illiceità delle merci e alla volontà – del soggetto che stocca le merci – di offrire o immettere in commercio i beni contraffatti presta il fianco a interpretazioni elusive delle vigenti norme da parte dei contraffattori, soprattutto se tali ragionamenti fossero declinati nel mondo analogico (i contraffattori potrebbero conservare le merci illecite presso magazzini di soggetti terzi i quali potranno andare esenti da responsabilità dimostrando di non essere a conoscenza dell’illiceità dei prodotti e di essere estranei all’offerta e all’immissione in commercio dei prodotti medesimi).
D’altro canto, una decisione di segno opposto avrebbe rischiato di addossare, ai gestori di mercati digitali, oneri di controllo eccessivamente gravosi che avrebbero potuto paralizzare la loro attività o quantomeno escludere dal mercato digitale tutta una serie di soggetti non in grado di prestare serie garanzie di affidabilità delle merci.
In ogni caso, non è possibile escludere che la pervasività dell’e-commerce, che pare essere destinato a soppiantare quasi del tutto il “tradizionale” mercato off-line in tempi brevi, imporrà sia ai legislatori, sia alle corti (nazionali ed europee) di mutare indirizzi interpretativi e di imporre più penetranti obblighi di monitoraggio delle merci ai marketplace anche quando tali soggetti svolgano una “semplice” attività logistica. Difatti, sebbene tale attività non comporti un uso diretto di un marchio tale uso è, nondimeno, fonte di profitti, derivanti anche dai prodotti contraddistinti da marchi (anche se contraffatti).
Il presente articolo è stato redatto con la collaborazione dell'avv. Federico Caruso, Associate dello Studio SIB LEX.