30 Settembre 2020

Una cattedrale nel deserto, la revocazione per dolo del giudice

KATJA BESSEGHINI

Immagine dell'articolo: <span>Una cattedrale nel deserto, la revocazione per dolo del giudice</span>

Abstract

L’istituto della revocazione ex art. 395, n. 6, c.p.c., nato come baluardo estremo del giusto processo, è nei fatti rimasto inapplicato dal 1940 ad oggi, anche in quanto non sempre necessario alla tutela risarcitoria della parte danneggiata dalla condotta dolosa.

***

La revocazione per dolo del giudice

Prima dell’emanazione del codice nel 1940, rispetto a un accertato dolo del giudice era previsto unicamente il rimedio dell’azione civile risarcitoria, la quale tuttavia non costituiva mezzo di impugnazione e non consentiva né presupponeva la rimozione della sentenza viziata dalla condotta dolosa del giudicante.

L’introduzione della possibilità di agire per revocazione ex art. 395, n. 6, c.p.c. contro la sentenza che sia effetto del dolo del giudice rispondeva pertanto all’esigenza di garanzia del giusto processo, anche attraverso l’imparzialità e la terzietà dell’organo giudicante, quali principi costituzionalmente garantiti dagli artt. 3, 24, e 111 della Costituzione.

Lo strumento revocatorio presuppone che il giudice, in mala fede, favorisca scientemente ed illegittimamente una o più parti del processo e che il dolo venga accertato con sentenza penale passata in giudicato. Non è necessario che i favori siano diretti alla parte vincitrice, è sufficiente che il giudice abbia esercitato le sue funzioni con intenzione diretta a uno scopo contrario alla legge, comportando un’irrimediabile lesione del diritto costituzionalmente garantito di essere giudicati da un giudice imparziale.

Il dolo del giudice non integra la nullità né tantomeno l’inesistenza della sentenza, gravando sulla parte che intende far valere il vizio l’onere di impugnarla entro i termini prescritti dalla legge.

 

Revocazione e risarcimento del danno

La revocazione, in generale, è un mezzo di impugnazione costituito da una prima fase rescindente, con la quale si accerta la sussistenza o meno dei vizi lamentati e a cui consegue, rispettivamente, l’annullamento o la conferma della sentenza impugnata, e da un’eventuale seconda fase rescissoria diretta alla pronuncia di un nuovo provvedimento sostitutivo di quello annullato.

Come accennato, l’introduzione della revocazione nel nostro ordinamento è stata dettata dall’esigenza di prevedere, accanto al rimedio risarcitorio, un mezzo di impugnazione che consentisse la rimozione, oltre i termini previsti per le impugnazioni ordinarie, degli effetti di una sentenza gravemente viziata da un comportamento costituzionalmente contrario ai principi di imparzialità e terzietà del giudicante.

Senonché, nei rarissimi (recenti) casi giudiziari in cui il dolo del giudice è venuto, anche solo incidentalmente, in rilievo (su tutti la vicenda del c.d. Lodo Mondadori), l’esperimento dell’azione revocatoria non è stato considerato un presupposto necessario per il risarcimento del danno subito dalla parte danneggiata o comunque sfavorita dalla condotta dolosa: la stessa Corte di Cassazione ha ritenuto che la necessità di un previo esperimento della revocazione ex art. 395 n. 6 cpc quale condizione di procedibilità dell’azione risarcitoria sia da valutarsi in concreto anche alla luce dell’eventuale insussistenza di un interesse della parte danneggiata all’accoglimento del gravame.

La giurisprudenza ha mostrato dunque un certo pragmatismo nel privilegiare la tutela individuale e privata della parte lesa dalla pronuncia viziata, alla rimozione nell’interesse generale di un provvedimento illegittimo, ammettendo che la parte agisca direttamente per conseguire il ristoro del danno subito “a causa” del comportamento doloso del giudice (Cass. civ., n. 21255/2013) senza esperire preventivamente il rimedio rescindente della revocazione.

Benchè pensata come garanzia del principio costituzionale del giusto processo e di un interesse in primo luogo generale, la revocazione lascia pertanto il campo, in concreto, alle ragioni private del singolo a vedersi riconosciuto il ristoro economico del pregiudizio subito a causa del fatto illecito, potendo questi agire direttamente ex art. 2043 c.c. senza interferire con la sopravvivenza di un giudicato gravemente viziato.

 

La revocazione del lodo arbitrale

Il legislatore ha esteso anche al procedimento arbitrale la possibilità di impugnare il lodo con la revocazione per il motivo di cui all’art. 395, n. 6, c.p.c., in relazione al quale valgono le stesse considerazioni previste per il rimedio giurisdizionale.

Secondo l’art. 831 c.p.c., la revocazione del lodo per dolo del giudice non può essere oggetto di preventiva rinuncia, a dimostrazione che, anche in materia arbitrale – il cui contenuto è, per definizione, disponibile dalle parti – il legislatore non tollera la possibilità che l’ordinamento accolga, senza possibilità di rimedio, una pronuncia contraria ai principi di imparzialità e terzietà del giudicante, quand’anche conseguente a un procedimento di natura non giurisdizionale.

In assenza nel nostro ordinamento di una norma penale che sanzioni espressamente la condotta corruttiva dell’arbitro, è remota la possibilità di conseguire l’accertamento del dolo dell’arbitro in sede penale e conseguentemente di esperire efficacemente il rimedio della revocazione nei confronti di un lodo che ne sia effetto.

La giurisprudenza ha tentato in più occasioni di avvicinare la figura dell’arbitro a quella del giudice e più in generale a quella del pubblico ufficiale, invocando la natura pubblicistica della funzione arbitrale (cfr. Corte Cost., n. 376/2001; Cassazione civile, n. 2013/2014). Senonché, ai fini in esame, l’applicabilità agli arbitri delle norme penali previste per i pubblici ufficiali incontra, da un lato, l’ostacolo insormontabile del divieto di analogia in malam partem della norma penale e, dall’altro, la quantomeno dubbia equiparabilità delle due figure, stante il rapporto di carattere prettamente privatistico che lega gli arbitri alle parti.

Solo a condizione di poter inquadrare la condotta dolosa come elemento costitutivo di fattispecie incriminatrici che non costituiscano reati propri del pubblico ufficiale (es. il reato di frode contrattuale compiuto dal mandatario), sarà possibile l’azione di revocazione del lodo prevista dell’art. 831 c.p.c., dovendosi escludere – come per le sentenze emesse dall’autorità giudiziaria – qualunque valore e rilevanza di un accertamento incidentale del comportamento doloso che fosse eventualmente contenuto in una sentenza civile.

Insomma, la revocazione ex art. 395, n. 6, quanto e più degli altri mezzi di impugnazione “straordinari”, è destinata a rimanere un presidio irrinunciabile in linea di principio, in quanto garanzia di principi di rango costituzionale, e al contempo nei fatti inutilizzato quando non sostanzialmente impraticabile.

Altri Talks