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È nota la ritrosia italiana a guardare all’estero per trovare soluzioni e risposte a problemi endemici. La nostra atavica difficoltà nell’accettare soluzioni condivise internamente rende ancora più complesso ritenere che, al di fuori dei confini nazionali, vi possa essere una risposta migliore a quanto ci offre il nostro Paese.
Limitando l’analisi all’ambito giuridico, è opportuno chiedersi, in questa sede, se il sistema di diritto privato contemplato dal nostro ordinamento sia davvero il migliore per regolare i rapporti internazionali d’impresa.
La risposta che si evince dalla prassi aziendale indurrebbe a rispondere affermativamente. La scelta della legge italiana (e del foro locale per la risoluzione delle controversie) è pressoché plebiscitaria nella contrattualistica internazionale delle imprese italiane. Alcune voci discordanti, tuttavia, esistono; la mia è certamente una di quelle.
L’esperienza professionale, contrassegnata dallo studio e dall’applicazione quotidiana di normative straniere, soprattutto di derivazione anglosassone, mi induce con convinzione ad affermare che il sistema di diritto civile italiano è in gran parte obsoleto e, soprattutto, inadeguato rispetto alle esigenze del mercato globale. L’inefficacia dei sistemi di tutela offerti dal Codice Civile e, più in generale, l’eccessiva restrizione delle libertà personali nella gestione degli affari privati costituiscono soltanto la punta dell’iceberg di un sistema civile da riformare profondamente.
Mentre la Germania si è progressivamente affrancata dai rigori di alcuni istituti romanistici, adottando in modo progressivo principi e regole di common law sin dalla fine degli anni ‘90, in Italia tale possibilità è del tutto remota. Il dibattito parlamentare, infatti, si concentra prevalentemente sulle modifiche al processo penale e sulla separazione delle carriere tra i magistrati, privilegiando gli interessi politici e pubblici a quelli economici e privati.
Cosa fare, dunque, se il legislatore nazionale non è in grado di tutelare (o non dedica sufficiente attenzione a) chi è da sempre il motore pulsante del Paese, ovvero i nostri imprenditori? Le soluzioni, quanto meno nei rapporti globali, possono essere ricercate altrove, “espatriando” in modo figurato verso sistemi giuridici e culture che privilegiano l’autonomia privata all’intervento pubblico, che favoriscono la libera determinazione dei rapporti giuridici a costrizioni che alterano la competitività in ambito domestico e internazionale.
Molti ordinamenti di common law offrono tali vantaggi, attribuendo agli imprenditori la più ampia libertà di legiferare nei propri rapporti d’affari. Chi non si avvale di tale facoltà, può essere addirittura penalizzato, stante l’applicazione residuale di disposizioni generali che le parti non dichiarano espressamente di voler escludere. Si rovesciano i canoni tradizionalmente noti. Nei sistemi anglosassoni, le norme di legge trovano per lo più applicazione ex post, nei vuoti lasciati dall’autonomia privata, anziché restringere ex ante la libertà delle parti come nella tradizione romano-germanica. Negli ordinamenti di civil law, i principi generali sono spesso inderogabili in peius a protezione della parte più debole; nei sistemi di common law; al contrario, i principi generali (e, tra questi, anche quelli che vengono generalmente considerati inderogabili, come i termini di prescrizione) sono sovente derogabili in melius dall’autonomia privata.
Ciò spiega la ragione per la quale la contrattualistica improntata sul modello tradizionale di diritto continentale si rivela spesso inadeguata su scala globale, stante la progressiva armonizzazione tra sistemi giuridici (la Convenzione di Vienna del 1980 sulla vendita internazionale di merci costituisce, probabilmente, la sintesi più evidente di tale processo) e la prevalenza del modello anglosassone nella prassi del diritto del commercio internazionale.
Quali sono, dunque, i benefici nell’avvalersi del diritto straniero e, segnatamente, di quello anglosassone? Limitandomi a elencare alcuni tra i vantaggi principali, è appena il caso di segnalare, a seconda della fattispecie, la facoltà di:
- disapplicare norme generalmente ritenute inderogabili (ad esempio, obblighi a carico delle parti di un rapporto di locazione, d’agenzia o di lavoro ecc.);
- configurare alcuni inadempimenti contrattuali alla stregua di torts, ampliando i rimedi di tutela azionabili;
- equiparare, in termini risarcitori, la responsabilità pre-contrattuale a quella contrattuale, anziché limitare il ristoro economico al c.d. interesse positivo differenziale;
- avvalersi di forme di garanzie più efficaci e flessibili (es. security agreements e collateral) rispetto a quelle tradizionalmente note (reali e personali);
- agevolare e ridurre i tempi d’esecuzione e di riconoscimento di provvedimenti giurisdizionali all’estero, soprattutto in assenza di convenzioni per il mutuo riconoscimento delle sentenze;
- sanzionare dichiarazioni o condotte contrattuali scorrette, ambigue e false con una gamma di rimedi, non soltanto risarcitori, efficaci e tempestivi.
Alcune normative straniere sono decisamente orientate a favore di chi esercita attività d’impresa, legittimando talvolta la loro applicazione pur in assenza di collegamento con le parti del rapporto giuridico: temerle senza conoscerle è sbagliato e spesso penalizzante. Fino a quando non sarà realizzata una riforma organica del nostro sistema di diritto civile, la competitività aziendale sul mercato globale dipenderà, oltre che da fattori tradizionalmente noti (quali la visione imprenditoriale, la strategia manageriale, il progresso tecnologico, il know how industriale ecc.), anche dalla conoscenza e dalla sapiente applicazione del diritto straniero.