26 Novembre 2021

Compenso al Presidente del Consiglio di Amministrazione e deduzione fiscale

PAOLO COMUZZI

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Abstract

La decisione della Cassazione citata in premessa stabilisce che giustamente l’Agenzia delle entrate (regione Sardegna) “… ha recuperato a tassazione nei confronti della società le spese sostenute dalla stessa nei confronti dei soci ed amministratori Valentino Rocchi e Antonio Sardu, a titolo di lavoro subordinato, in assenza delle caratteristiche proprie di tale tipologia di rapporto, quali il potere direttivo, gerarchico e disciplinare. In particolare, per l’Agenzia delle entrate, con riferimento al socio ed amministratore, componente del consiglio di amministrazione della società contribuente Cento Società Cooperativa, Antonio Sardu, questi godeva di autonomia decisionale e, nello svolgimento delle sue mansioni, non rispondeva del suo operato ad alcuno superiore gerarchico …”.

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La decisione (che da quanto capisco nega la deduzione degli stipendi e dei contributi) potrebbe sembrare alquanto “rivoluzionaria” e si potrebbe pensare che complichi la vita delle società ma dobbiamo dire che invece la decisione stessa si pone nel solco di precedenti molto chiari e be noti agli operatori.

Per essere precisi diciamo che la Corte di Cassazione riforma la sentenza della CTR della Sardegna con rinvio alla stessa CTR in diversa composizione e afferma un chiaro principio di diritto secondo cui “…“In tema di imposte sui redditi sussiste l’assoluta incompatibilità tra la qualità di lavoratore dipendente di una società di capitali e la carica di presidenza del consiglio di amministrazione o di amministratore unico della stessa, in quanto il cumulo nella stessa persona dei poteri di rappresentanza dell’ente sociale, di direzione, di controllo e di disciplina rende impossibile quella diversificazione delle parti del rapporto di lavoro e delle relative distinte attribuzioni che è necessaria perché sia riscontrabile l’essenziale ed indefettibile elemento della subordinazione, con conseguente indeducibilità dal reddito della società del relativo costo da lavoro dipendente. La compatibilità della qualità di socio amministratore, membro del consiglio di amministrazione di una società di capitali, con quella di lavoratore dipendente della stessa società, ai fini della deducibilità del relativo costo dal reddito di impresa, non deve essere verificata solo in via formale, con riferimento esclusivo allo statuto e alle delibere societarie, occorrendo invece accertare in concreto la sussistenza o meno del vincolo di subordinazione gerarchica, del potere direttivo e di quello disciplinare e, in particolare, lo svolgimento di mansioni diverse da quelle proprie della carica sociale rivestita …”.

Tutta la questione parte da un accertamento a carico della società nel quale l’agenzia delle entrate, con riferimento specifico al Presidente del CDA ed ad un amministratore, indicava che la prima persona (Rocchi) era dipendente ma anche che egli “…era presidente del consiglio di amministrazione, sicché essendo munito della rappresentanza generale della società, non era ammessa la contemporanea presenza dell’attività di lavoro subordinato, poiché il potere di rappresentanza equivaleva al potere di controllo, con la conseguente incompatibilità delle due cariche. Pertanto, a fronte della ripresa fiscale n. 8, per “indebita deduzione di costi non inerenti”, per “stipendi e contributi”, per euro 195.368,26, quale quota indeducibile, riferita al saldo contabile di euro 536.200,76, veniva contestata alla società, ai fini Ires, l’erronea deducibilità della somma sopra riportata …” mentre la seconda persona (Sordu) non appariva soggetta a controllo alcuno di carattere gerarchico.

Le due persone indicate (Rocchi e Sardu), avuto riguardo al fatto che il loro compenso quale lavoratore subordinato era stato considerato come un onere non deducibile per la società, procedevano a adire le vie legali contro l’Agenzia delle Entrate e nello specifico “…I due soci ed amministratori, dopo che la società da loro amministrata aveva ricevuto l’avviso di accertamento con riferimento all’Ires, per indeducibilità dei costi relativi al loro rapporto di lavoro, hanno chiesto il rimborso delle imposte versate per i loro rapporti di lavoro subordinato, ai fini Irpef. Avverso il silenzio dell’Agenzia hanno, quindi, presentato ricorso dinanzi alla Commissione tributaria, dolendosi della “doppia imposizione”, sia con riferimento alla indeducibilità dei costi da lavoro dipendente ai fini Ires, sia per il pagamento delle imposte relative al loro rapporto di lavoro, ai fini Irpef …”.

La Corte di Cassazione afferma in modo esplicito e molto chiaro che “…La sentenza del giudice d’appello ha errato nell’applicazione dei principi giurisprudenziali di legittimità in materia, con riferimento alla possibilità del socio amministratore di svolgere anche, in parallelo, una attività di lavoro subordinato …”.

Si tratta di un principio che in apparenza appare abbastanza particolare in quanto la Cassazione (come del resto indica in sentenza) ha sempre stabilito che deve ritenersi del tutto “…compatibile la posizione di socio di società di capitali con quella di amministratore della stessa, tranne le ipotesi di amministratore unico, presidente del consiglio di amministratore o di socio “sovrano” (Cass., sez. 5, 28 aprile 2021, n. 11161). Si è, dunque, affermato che la qualità di socio ed amministratore di una società di capitali composta da due soli soci, entrambi amministratori, è compatibile con la qualifica di lavoratore subordinato, anche a livello dirigenziale, ove il vincolo della subordinazione risulti da un concreto assoggettamento del socio - dirigente alle direttive ed al controllo dell'organo collegiale amministrativo formato dai medesimi due soci (Cass., sez. L, 21 maggio 2002, n. 7465; Cass., 21 gennaio 1993, n. 706; Cass., sez. L, 25 maggio 1991, n. 5944; Cass., sez. L, 13 novembre 1989, n. 4781) …”.

La Cassazione ha sempre affermato che “…solo, quindi, nel caso di amministratore unico di società di capitali datrice di lavoro non è configurabile il vincolo di subordinazione perché mancherebbe la soggezione del prestatore ad un potere sovraordinato di controllo e disciplina, escluso dalla immedesimazione in unico soggetto della veste di esecutore della volontà sociale e di quella di unico organo competente ad esprimerla (Cass., sez. L, 29 maggio 1998, n. 5352; Cass., sez. L, 5 aprile 1990, n. 2823; anche Cass., sez. 5, 28 aprile 2021, n. 11161) …”.

Il principio generale (portato in molte decisioni) è quello per cui “….La qualità di amministratore di una società di capitali è, dunque, compatibile con la qualifica di lavoratore subordinato della stessa, ove sia accertato in concreto lo svolgimento di mansioni diverse da quelle proprie della carica sociale rivestita, con l’assoggettamento ad effettivo potere di supremazia gerarchica e disciplinare (Cass., sez.L, 26 ottobre 1996, n. 9368; Cass., 25 maggio 1991, n. 5944; Cass., sez. L, 11 novembre 1993, n. 11119; anche Cass., sez. 5, 28 aprile 2021, n. 11161) …”.

Certamente a prima vista la decisione che si commenta potrebbe sembrare pericolosa per numerose società ma in realtà non è tale come indichiamo nelle conclusioni.

 

Conclusioni

La decisione citata non ha alcun carattere rivoluzionario ma si limita a dire che nel caso concreto le somme erogate non potevano essere qualificate come dovute in base ad un rapporto di lavoro dipendente in quanto non vi erano le condizioni giuridiche per qualificare il rapporto con Rocchi e Sordu secondo questa impostazione.

In questo senso la Cassazione ripete quanto ha sempre affermato che “… potendo in astratto coesistere nella stessa persona la posizione di socio di una società e quella di lavoratore subordinato della medesima, pure un socio, componente del consiglio di amministrazione di una società, può essere legato a quest’ultima da un rapporto di lavoro subordinato, purché appunto risulti in concreto assoggettato ad un potere disciplinare e di controllo esercitato dagli altri componenti dell’organo cui egli appartiene; mentre, in mancanza di siffatto assoggettamento, l’osservanza di un determinato orario di lavoro e la percezione di una regolare retribuzione non sono sufficienti da sole a far ritenere la sussistenza del rapporto di lavoro subordinato (Cass., sez.L, 15 febbraio 1985, n. 1316) …”.

La nostra conclusione è che non vi sia niente di nuovo e che pertanto nessuno deve avere un timore che sia stato affermato in principio prima ignoto e che consente agli uffici accertamenti su basi nuove.

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