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Tutte le Storie di Giustizia, tutti i processi che si rispettino hanno un protagonista: il testimone.
La verità processuale, infatti, si nutre di prove e il più famoso dei mezzi di prova - anche perché è il più teatrale - è la dichiarazione testimoniale.
La forza della testimonianza risiede nella posizione di terzietà che il teste assume nella controversia. In altre parole, il teste viene ritenuto credibile perché è un soggetto che non ha interesse nel giudizio. Questo fa sì - almeno così ritiene il Legislatore - che la sua dichiarazione sia degna di fiducia.
Quindi (al di là del giuramento che è chiamato a rendere) il punto cruciale della faccenda sta nel fatto che il testimone si trova nella posizione teoricamente ideale per poter riferire una circostanza, per poter oggettivamente riportare un fatto al quale è stato presente: la posizione di terzietà, insomma!
Ma siamo proprio sicuri che questo sia un fondamento solido? Siamo sicuri che questa benedetta terzietà esista davvero nei termini in cui noi tutti l’immaginiamo e non rischi di rivelarsi un mito falso e bugiardo?
E allora dobbiamo ascoltare ciò che un premio Nobel ha da dirci sul punto. Mi riferisco a Luigi Pirandello e a quanto ha scritto nella famosissima commedia “Così è, se vi pare”.
Riassumo la trama. In una piccola città giungono tre persone, una coppia di coniugi e la madre di lei. I tre provengono da un posto che un terremoto ha raso al suolo. I coniugi si stabiliscono in un appartamento in periferia, mentre l’anziana signora va a vivere in una casa in centro. La giovane sposa non esce mai di casa (né riceve), e questo fatto alimenta nella gente le più disparate teorie. Per farla breve, il genero e la suocera vengono interrogati in modo sempre più incalzante dai cittadini e forniscono versioni del tutto inconciliabili tra loro, per cui si formano in città due opposti “partiti”, a seconda della versione preferita. Il dramma si conclude con l’entrata in scena dell’unica persona che può risolvere la questione, cioè la giovane moglie, la sola che può autenticamente far luce su tutto e che, quindi, incarna la verità stessa. Ebbene, la giovane donna appare col volto velato e pronuncia la celeberrima battuta: “io sono colei che mi si crede”! Il sipario si chiude accompagnato dalla lancinante risata del Signor Laudisi (cioè di Pirandello stesso), risata che peraltro aveva accompagnato la chiusura del sipario alla fine di ciascuno dei precedenti atti.
Ora, cos’è che il buon Pirandello vuole dirci? Che la verità è spesso inconoscibile, perché ciascuno vede nello stesso fatto cose diverse da quel che vedono gli altri e ciò in base al proprio vissuto, alle proprie convinzioni, alle proprie paure e ai propri desideri.
Qualcosa di simile accade anche ai testimoni nelle aule di giustizia. Anche a quelli che sono in buona fede, anche a quelli che sono realmente disinteressati al processo (cosa, peraltro, non così comune). Parlare di terzietà dei testimoni spesso appare arduo, se per terzietà s’intende l’assenza di interesse nel giudizio.
Non è detto, quindi, che il testimone sia un soggetto terzo, anche quando formalmente appaia tale. Pensate, poi, alle situazioni umane che si vengono a creare nei piccoli centri, nei paesini. Se tutti si conoscono - perché sono tutti parenti, o sono stati insieme a scuola o in ogni altra occasione di aggregazione - mi chiedo in quale misura si possa parlare seriamente di terzietà. Anche quando afferma il vero, spesso il teste non sarà del tutto disinteressato alla vicenda sulla quale è chiamato a deporre. Questo è inevitabile. La terzietà del teste, quindi, è un falso mito.
E poi, talvolta, i testimoni, quando sono chiamati a deporre, subiscono inconsapevolmente il sottile fascino di quel ruolo. Voglio dire, cioè, che il testimone avverte chiaramente che dalla sua dichiarazione dipende molto. E ciò lo impaurisce e lo esalta allo stesso tempo. Per tante persone - nel corso dell’intera vita - non sono molte le occasioni in cui si viene chiamati a dichiarare qualcosa che incide direttamente su una decisione ufficiale e sulla carne viva del prossimo. Ecco perché, superato il primo momento di imbarazzo e timore, talvolta il testimone (anche quello in buona fede, ripeto) rischia di riversare sè stesso nella testimonianza che rende, rischia di leggere i fatti a modo suo … e quando gli ricapita un’occasione del genere!