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Quesito: "Il canone di locazione relativo ai mesi di chiusura forzata deve essere comunque pagato?"
Dall’inizio dell’emergenza numerosi sono stati gli interventi dottrinali che hanno cercato di rispondere a questo interrogativo. Il sentire comune ha infatti percepito come una stonatura la permanenza dell’obbligo in capo al conduttore di continuare corrispondere i canoni di locazione nonostante la chiusura imposta dai provvedimenti del governo.
Come noto la normativa emergenziale ha disposto la chiusura (per alcuni mesi) e imposto notevoli limitazioni per gli esercizi commerciali e attività produttive etc ritenuti non essenziali, al fine di contrastare la diffusione del virus COVID -19.
Per contemperare le suddette limitazioni sono state introdotte alcune previsioni legislative tra le quali quelli contenute e disciplinate all’art. 65 del D.L. Cura Italia e all’art. 28 del D.L. Rilancio.
La prima delle norme summenzionate prevede la possibilità per il conduttore di usufruire di un credito d’imposta pari al 60% del canone di locazione pagato; tale beneficio però riguarda unicamente le attività il cui esercizio è stato totalmente precluso in conseguenza dell’entrata in vigore dei provvedimenti restrittivi emanati dal governo.
La norma in commento, letta in combinato disposto con le altre disposizioni codicistiche, ha portato l’interprete a ritenere, in un primo momento, che la previsione da parte del legislatore di un credito d’imposta dovesse essere interpretata nel senso di ritenere il canone come dovuto.
A ben vedere la norma però risultava parziale e incompleta in quanto se da un lato riguardava effettivamente tutte le attività cui era stata imposta la chiusura, dall’altro - ed in concreto- indicava come esclusivi beneficiari i conduttori di immobili accatastati come C/1; la totale assenza di pregio giuridico di una differenziazione di questo tipo aveva portato tutti gli operatori del diritto a ritenere che tale stortura venisse poi corretta in sede di conversione.
In realtà la norma è rimasta invariata ma il legislatore è ri-intervenuto sul punto introducendo (art. 28 D.L. rilancio) un’estensione della disciplina: “Al fine di contenere gli effetti negativi derivanti dalle misure di prevenzione e contenimento connesse all'emergenza epidemiologica da COVID-19, ai soggetti esercenti attività d'impresa, arte o professione, con ricavi o compensi non superiori a 5 milioni di euro nel periodo d'imposta precedente a quello in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto, spetta un credito d'imposta nella misura del 60 per cento dell'ammontare mensile del canone di locazione, di leasing o di concessione di immobili ad uso non abitativo destinati allo svolgimento dell’attività industriale, commerciale, artigianale, agricola, di interesse turistico o all'esercizio abituale e professionale dell’attività di lavoro autonomo.”
La possibilità di beneficiare di un credito d’imposta è stata estesa, dunque, anche ai contratti di affitto d’azienda e similari, mentre è stata inserita una limitazione per le imprese con fatturato superiore a 5 milioni di Euro, restando totalmente escluse le imprese già in crisi al 31.12.2019.
Tali estensioni/limitazioni hanno quindi di fatto variato l’interpretazione iniziale data alle norme emergenziali (e cioè che si potesse ritenere implicitamente dovuto il canone in considerazione del riconoscimento di un beneficio fiscale); l’art. 28 del DL Rilancio infatti rientra a tutti gli effetti in una forma di mero aiuto agli imprenditori che prescinde dalla chiusura o meno dell’attività e che prende come unico parametro, per la concessione del beneficio, la riduzione del fatturato.
Il legislatore però non si è mai espressamente pronunciato sul tema della debenza o meno del canone di locazione per i mesi di lockdown.
Cosa dicono la dottrina e la giurisprudenza
Per poter rispondere all’interrogativo iniziale dunque occorrerà esaminare alcuni filoni dottrinali e giurisprudenziali sviluppatosi in termini di “causa in concreto” e di impossibilità di utilizzo della prestazione (sul punto veda nostro articolo in tema di affitto d’azienda). In estrema sintesi, secondo l’ ipotesi in parola, l’istituto dell'impossibilità sopravvenuta della prestazione (artt. 1463–1466 c.c.) sarebbe integrata non soltanto nel caso in cui l’esecuzione della prestazione dovuta sia impossibile, ma anche qualora questa sia di fatto inutilizzabile (la giurisprudenza equipara l’impossibilità di utilizzazione alla sopravvenuta impossibilità di adempiere la prestazione a carico del debitore. Cfr. Cass. n. 16315/2007; Cass. n. 8766/2019). Tale tesi sebbene utilmente sostenibile, trova però, a parere di chi scrive, il limite della corretta “allocazione del rischio”, elemento che attiene ad ogni tipologia contrattuale. In forza di tale principio, non ci pare corretto sostenere che debba essere il locatore (sui cui certamente ricadono i rischi legati alle problematiche che possono interessare l’immobile oggetto della locazione) a dover subire le conseguenze negative (perdite economiche) dovute alla chiusura forzata dell’attività; al contrario è, invece, l’imprenditore (conduttore) il soggetto tipicamente sottoposto al rischio d’impresa (tra cui potrebbe essere ricompresa anche l’eventuale chiusura/fermo dell’attività). Una corretta applicazione di questo ragionamento porta a concludere che la perdita economica debba essere sopportata dall’imprenditore/conduttore, più che dal proprietario locatore.
Quindi ricapitolando:
1 il legislatore, con la normativa introdotta ad hoc, non ha fornito alcuna specifica soluzione del problema della debenza o meno del canone di locazione per i periodi di lockdown;
2. la tesi che propende per la non debenza, basandosi sulla teoria della causa in concreto, trova il limite della corretta allocazione del rischio nel contratto di locazione.
Non vi sono dunque parametri oggettivi che portino ad affermare con assoluta certezza l’obbligo o meno del conduttore di corrispondere il canone anche per i mesi di chiusura forzata.
Cercare una soluzione
Possiamo però chiederci se, in forza dei principi generali dell’ordinamento, sia comunque possibile addivenire a soluzioni di equilibrio che comportino un obbligo di rinegoziazione del contratto e conseguente ad una rimodulazione/riduzione del canone locativo.
Il principio da richiamare in primis è certamente quello della buona fede e correttezza cui sono tenuti i contraenti nella formazione e nell’esecuzione del contratto (artt. 1337 e 1375 c.c.), in combinato disposto con l’art. 2 Cort., che introduce un principio c.d. solidaristico. In forza dei suddetti principi si può affermare che in considerazione di una situazione del tutto imprevista ed imprevedibile e di portata mondiale, le parti siano tenute ad agevolarsi reciprocamente al fine di mantenere il corretto equilibrio del vincolo contrattuale. Il nostro codice civile, infatti, prevede varie norme che garantiscono un riequilibrio del contratto in casi particolari (l’art. 1467, comma 3 prevede la possibilità per le parti di modificare equamente il contratto al fine di evitare la risoluzione, l’art. 1623 c.c. in materia di eccessiva onerosità prevede che se il contratto di affitto “risulta notevolmente modificato in modo che le parti ne risentano rispettivamente una perdita e un vantaggio, può essere richiesto un aumento o una diminuzione del fitto”, in tema di appalto l’art. 1664 c.c. prevede la riequilibratoria dei prezzi “qualora per effetto di circostanze imprevedibili si siano verificati aumenti o diminuzioni nel costo dei materiali o della mano d'opera”; anche in materia di locazione vi è una norma, art. 1584 c.c., che prevede un riequilibrio del canone in caso di inutilizzabilità dei locali per lavori di ripristino).
Partendo da questo assunto, a parere di chi scrive, si potrebbe dunque sostenere l’esistenza di un obbligo di ri-equilibratura del contratto (ndr del canone di locazione) così da consentire un’equa distribuzione della perdita economica tra le parti (non un automatismo, ma una valutazione in concreto e caso per caso che tenga conto della durata della sospensione, dell’effettiva perdita economica – non scontata e non automatica – della residua utilizzabilità/utilizzo dell’immobile, ecc).
Cosa succede se le parti non giungono ad una soluzione amichevole? Può intervenire il giudice?
A parere degli scriventi, l’attuale situazione apre le porte ad una più intensa applicazione dell’equità e della “buona fede integrativa” (vedere “Buona fede integrativa e potere correttivo del giudice www.magistraturaindipendente.it/buona-fede-integrativa-e-potere-correttivo-del-giudice.html). Il codice prevede, infatti, espressamente all’articolo 1374 c.c., la possibilità che il contratto, per le questioni non espressamente previste, sia integrato in primis dalla legge, poi dagli usi ed infine secondo equità.
L’attuale situazione di pandemia potrebbe rientrare proprio tra le questioni non previste dal contratto (e non considerate della parti) e come tale potrebbe essere integrata ex art. 1374 c.c..
Non potendo quindi fare riferimento alla legge (per i motivi già esposti) e nemmeno agli usi, residua l’integrazione secondo equità. Si potrà, pertanto, chiedere al giudice di integrare il contratto in via di equità. Concetto però non semplice da gestire e inquadrare. In considerazione dell’obbligo generale delle parti di comportarsi secondo buona fede e secondo una lettura costituzionalmente orientata (art. 2 Cost.) il giudice potrebbe integrare la fattispecie contrattuale prevedendo un rimodulazione/riduzione del canone sul presupposto che due contraenti in buona fede, se avessero considerato l’evento “pandemia” al momento della stipula del contratto, avrebbero disciplinato tale eventualità prevedendo quantomeno una riduzione del canone per i periodi di chiusura dell’attività.
Conclusione
Si può sostenere che il Giudice, investito della questione inerente il pagamento del canone di locazione, potrebbe fare applicazione dell’art. 1374 cc e quindi di provvedere ad una integrazione del contratto secondo buona fede e disporre, dunque, conseguentemente, procedere con una rimodulazione e riduzione del canone di locazione.