01 Giugno 2020

Downton Abbey

LUCIO BONGIOVANNI

Immagine dell'articolo: <span>Downton Abbey</span>

Abstract

La Giustizia e i tempi che cambiano

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C’è una serie televisiva che mette tutti d’accordo, perché è davvero trasversale e non può non piacere, tanto o poco, per un motivo o per l’altro. Sto parlando di Downton Abbey naturalmente. Una serie attorno alla quale tutta la famiglia si riunisce magicamente, perché ciascuno trova facilmente un personaggio per cui fare il tifo. Tutto è incentrato su una residenza nobiliare di campagna, che funge da specchio nel quale si rifrange il cambiamento di un’epoca, il passaggio dalla società liberale ottocentesca allo spiazzante dinamismo del mondo novecentesco in cui vengono stravolti tutti i rapporti umani, come pure il patto sociale su cui si fondava un tessuto relazionale che solo pochi decenni prima sembrava granitico, condiviso, indissolubile. Tutte le storie in cui si dibattono i personaggi sono mero contorno, semplici accessori che mai mettono in ombra lei, la protagonista incontrastata della storia, Downton Abbey, con la sua maestosa bellezza che sopravvive a tutto e che sovrasta ogni cosa, ogni palpito d’amore, ogni meschino pettegolezzo, tutto offrendo sull’altare del sacro rito che viene celebrato tutte le sere con ieratica compostezza: la cena.

Vi starete chiedendo cosa c’entra Downton Abbey con le Storie di Giustizia. E’ una buona domanda in effetti, perché apparentemente non c’entra nulla. A ben guardare, però, ci si rende conto che la regina della nostra storia - cioè la bellissima tenuta che dà il nome alla serie - è costretta a dividere il palcoscenico con un protagonista occulto, ma non per questo meno importante, che si fa largo piano piano, che avanza lento ma inesorabile. Mi riferisco al “cambiamento”, a questo convitato di pietra che diventa il vero architrave di tutta la storia, al punto che attorno a lui gira la stessa Downton Abbey, che gli si fa splendida ancella, scena ideale per mostrare al mondo quanto inarrestabile sia la forza del “cambiamento”, quanto sovrumano e quasi soprannaturale sia lo spirito che anima e sorregge il “cambiamento”, a cui nulla può efficacemente opporsi, né le convinzioni radicate di un’intera generazione, né le battute salaci della nonna. Il cambiamento procede inesorabile, spinto dal carburante incendiario della storia. Ecco, allora, che di colpo Downton Abbey diventa una Storia di Giustizia.

E certo, perché qui non si parla di una semplice evoluzione delle mode, dei costumi. Qui non è in ballo una questione che riguarda elementi di contorno, perché viene descritta una mutazione di carattere strutturale che colpisce al cuore la dinamica dei rapporti umani, modificando radicalmente la percezione di ciò che è giusto e ciò che non lo è (o meglio, che non lo è più). Ma questo è proprio il terreno della Giustizia, il terreno dei rapporti tra gli esseri umani, della loro correttezza e della loro convenienza.

Ci accorgiamo, allora, che Downton Abbey nasconde tra i velluti e i tendaggi dei suoi saloni una chiave di lettura profonda. Una chiave che si coglie nella continua dialettica tra i diversi piani della residenza, tra i piani nobili e quelli riservati alla servitù. Insomma, una sorta di dialettica “servo-padrone”, la stessa dinamica che animerà le ideologie del novecento e che conferirà al “cambiamento”, al divenire, il ruolo di motore della storia. Un movimento incessante in cui non ha più senso parlare di vero e di falso, in cui non esiste più il brutto e il bello, il giusto e lo sbagliato, dato che tutto è in divenire e ogni pensiero è vero nel momento in cui si fa sintesi delle precedenti tesi e antitesi, ma che sarà inesorabilmente superato in un momento successivo.

Ecco, è questa la questione di Giustizia che Downton Abbey ci mette davanti e sulla quale oggi non si riflette abbastanza. Questa serie tv ha il merito di sbatterci in faccia - tra pizzi e merletti - qualcosa di cui non ci rendiamo conto, qualcosa che ha delle implicazioni pratiche che stanno alla base della disperazione dell’uomo contemporaneo.

Se sei convinto che il “cambiamento” abbia in se stesso carattere necessario e invincibile, anche riguardo ai rapporti tra gli esseri umani e alle questioni di ordine morale; se sei convinto che il divenire sia il motore della storia, allora non puoi meravigliarti se non ti senti più in grado di pensiero autonomo, ma solo di seguire il pensiero comune dettato dal flusso della storia; non puoi stupirti se non sai da che parte voltarti, se non hai alcuna certezza solida alla quale appigliarti quando le cose non girano più secondo i tuoi desideri; non puoi meravigliarti se ti ritroverai a seguire la corrente, il flusso della storia, illudendoti di esser forte sol perché disprezzi vigliaccamente coloro che osano andare controcorrente, ma in realtà sei terrorizzato dalla paura di non apparire sufficientemente in linea con lo spirito del tuo tempo.

E allora viva la nonna, viva Carson, viva tutta quella povera gente derisa sol perché crede nella logica aristotelica, quella gente che è convinta che esista il vero e il falso, il giusto e lo sbagliato, ora e sempre; quella gente a cui è rimasto il buon senso di credere che la storia non ha il potere di creare il bene e il male; quella gente che ritiene che la contraddizione sia segno di menzogna e che non si vergogna di pensare che ci sia una verità e magari abbia anche il coraggio di affermarla.

 

 

 

 

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