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Oggi la capacità di un’azienda di gestire le questioni legate alla sostenibilità è riconosciuta come un fattore di valorizzazione a lungo termine ed è direttamente collegata alla sua eccellenza operativa e alla responsabilità sociale. Diventa così un elemento importante anche per gli investitori. Se negli anni ‘90 il reddito d’impresa veniva considerato come l’unico indicatore della performance aziendale e, quindi, le informazioni da fornire agli investitori si esaurivano nell’ambito del bilancio di esercizio, già a partire dai primi anni 2000 la performance dell’impresa viene ricondotta anche alla sfera etica, sociale, ambientale di riferimento. Secondo un rapporto dell’associazione CSR Manager Network, nel 2017 oltre il 70% delle imprese del FTSE MIB ha inserito nel proprio piano strategico obiettivi socio-ambientali, una percentuale in deciso aumento rispetto al 40% riscontrato nel 2013 [1]. Coerentemente, si è assistito a un’evoluzione dell’universo dei rischi considerati dalle organizzazioni, che nel tempo hanno affiancato i rischi socio-ambientali a quelli più tradizionali, di natura economica, geopolitica o tecnologica. Un nuovo paradigma di gestione del rischio condiviso da diversi Stati Europei, che inizialmente si sono mossi in autonomia con normative nazionali talvolta disomogenee. Per questo motivo, la Comunità Europea ha attivato nel corso degli ultimi anni una riflessione sui temi ESG che ha portato all’emanazione della Direttiva 2014/95/UE, la quale modifica la precedente Direttiva 2013/34/UE in materia di bilancio.
La DNF
La nuova norma ha introdotto per le imprese di grandi dimensione qualificabili come “enti di interesse pubblico” l’obbligo di fornire una Dichiarazione di carattere Non Finanziario (DNF), contenente informazioni sulla sostenibilità sociale e ambientale delle attività aziendali e sulla gestione dei rischi relazionati a questi temi. L’obiettivo è quello di aumentare gli attuali livelli di trasparenza e comparabilità di questo tipo di informazioni, per avviare un circolo virtuoso che gradualmente induca le aziende di ogni dimensione a considerare e integrare nella propria strategia le tematiche socio-ambientali.
La Direttiva è stata recepita a livello italiano con il Decreto Legislativo n.254 del 30 dicembre 2016, che con un ulteriore passo avanti prevede una rendicontazione che non include solo le informazioni riguardanti il modello organizzativo e le performance socio-ambientali (come fino ad oggi richiesto dagli standard di rendicontazione ESG più diffusi), ma impone l’obbligo di informativa anche sui principali rischi e sulle relative scelte di gestione in campo di politiche del personale, rispetto dei diritti umani, lotta alla corruzione, rapporti commerciali (ad esempio con le catene di fornitura e subappalto)[1].
È evidente come un tale processo non possa esaurirsi in un mero esercizio di compliance, ma deve rappresentare l’ultimo tassello di un percorso più ampio e organico che, partendo dalla raccolta e analisi dei dati aziendali, permetta di identificare e gestire, con una visione olistica, i principali rischi connessi all’attività dell’impresa. In questo modo, la sostenibilità entra a tutti gli effetti nel perimetro di competenza dei vertici, determinando ricadute positive su una visione di sviluppo dell’impresa che beneficia dell’attenzione sui temi ESG.
In un contesto di business sempre più complesso e mutevole, la capacità di un’organizzazione di rispondere ai principali rischi in grado di minacciare il raggiungimento dei propri obiettivi strategici, siano essi di natura ambientale, sociale o economica, rappresenta un fattore critico di successo competitivo. Coniugare le performance finanziarie con una crescita sostenibile è la sfida che tutte le organizzazioni si troveranno ad affrontare nel prossimo futuro.