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La riforma del codice di giustizia sportiva: l’art. 7 CGS e il ruolo dei Modelli organizzativi
In ambito processual-calcistico, tema da sempre molto discusso è quello relativo alla responsabilità oggettiva ovvero “senza colpa” posta dall’ordinamento sportivo in capo alle società per l’operato dei propri dirigenti e tesserati, nonché di altri soggetti che comunque svolgono attività nell’interesse delle stesse. Gravissime conseguenze per le società sportive sono ricondotte ai comportamenti dei propri dipendenti che integrano fattispecie di illecito sportivo, azioni atte ad integrare, nella maggior parte dei casi, anche il reato di frode in competizione sportiva ex art.1 legge 401/1989.
Nel nuovo codice di giustizia sportiva Figc, al fine di escludere o attenuare tale forma di responsabilità delle società, è stato introdotto l’art. 7, secondo cui il giudice, nel pronunciarsi, non può prescindere dalla valutazione circa l’adozione, l'idoneità, l'efficacia e l'effettivo funzionamento del modello di organizzazione, gestione e controllo utilizzato dalla società sportiva.
Sebbene neppure il nuovo codice abdichi alla responsabilità oggettiva delle società, da sempre unanimemente riconosciuta sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza (oltre che dal regolamento Fifa) come caposaldo imprescindibile della giustizia sportiva, con la riforma si è inteso mitigare gli effetti distorsivi di una applicazione rigida delle disposizioni in materia.
A conferma dell’assunto, si pone in evidenza che sia l’art. 4 comma 2 del previgente CGS, sia l’art. 6 comma 3 del codice riformato non escludono l’applicazione dei criteri riguardanti la responsabilità oggettiva delle società sportive, a meno che le condotte contestate al deferito siano in contrasto con gli interessi della società. Il nuovo art. 6, anzi, sembra addirittura estendere la portata della responsabilità oggettiva, prevedendone l’applicazione anche per fatti posti in essere da soggetti non direttamente punibili dalla normativa sportiva.
L’art. 7 del vigente CGS si ispira al consolidato orientamento giurisprudenziale per il quale la responsabilità oggettiva necessita di un’applicazione non acritica e meccanica, ma informata a criteri di equità e gradualità, per evitare conseguenze abnormi e ingiuste per le società sportive. Fermo restando, ovviamente, che la responsabilità oggettiva è posta a tutela di beni primari come l’ordine e la sicurezza pubblica, in funzione di freno rispetto a comportamenti che possono incidere sul regolare svolgimento delle competizioni agonistiche e dei campionati.
Tale nuova disciplina ha trovato recente applicazione in una decisione della Corte Federale di Appello, massimo organo di giustizia endofederale Figc.
La vicenda trae origine dal deferimento da parte della Procura Federale di un calciatore professionista, il quale, in aperta violazione della normativa sportiva, attraverso un messaggio vocale whatsapp contattava un giocatore della squadra che all’indomani avrebbe affrontato la propria diretta avversaria in testa alla classifica generale, promettendo a lui ed ai suoi compagni di squadra un “premio a vincere” in denaro. Da qui il contestuale deferimento anche a carico della società a titolo di responsabilità oggettiva in ordine agli addebiti contestati al proprio tesserato, con una richiesta sanzionatoria per quest’ultima che prevedeva una cospicua ammenda.
La Corte Federale di Appello ha confermato, con interessanti motivazioni, il proscioglimento della società già pronunciato in primo grado, non rinvenendo alcun nesso di causalità necessaria tra il comportamento tenuto dal suddetto giocatore e la responsabilità oggettiva del sodalizio. In primis, la Corte ha escluso la riconducibilità e la rimproverabilità dei fatti oggetto di deferimento alla società; in secondo luogo, il collegio ha accertato l’adeguatezza delle misure preventive predisposte dalla società, in ossequio alle disposizioni legislative (art. 6 comma 1, d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231) e statutarie (art. 7 comma 5 dello Statuto FIGC).
La novità giurisprudenziale sta proprio nella rilevanza della fattiva opera di prevenzione posta in essere dalla società per combattere la commissione di illeciti sportivi a proprio vantaggio o interesse, con un chiaro riferimento all’art. 7 del CGS entrato in vigore a giugno 2019 (seppure nel giudizio si sia palesata qualche criticità in merito al tempus regit actum).
In tal senso, si sottolinea come l’ordinamento Figc si sia allineato ai principi più volte ribaditi dalla Suprema Corte di Cassazione in tema di responsabilità amministrativa degli enti ai sensi del Decreto Legislativo n. 231/2001, secondo cui l’ente è esente da responsabilità oggettiva per fatti illeciti estranei alla politica d’impresa, posti in essere nell’interesse dell’agente per un fine proprio o di terzi.
Nel caso in analisi, l’adozione da ben tre anni da parte della società professionistica di un modello organizzativo ex D.lgs. n. 231/2001 idoneo ed efficace, poi integrato da un codice etico, unitamente alla indubbia ed incontestata estraneità del club rispetto alla iniziativa del tutto personale ed estemporanea posta in essere dal calciatore, nonché l’assenza di vantaggi di qualsiasi genere per la società, hanno dunque portato ad escludere la sussistenza di qualsivoglia forma di responsabilità oggettiva.
Va posto in evidenza che la decisione in oggetto non pone in discussione l’istituto della responsabilità oggettiva delle società, ma s’informa ad un orientamento sostanzialmente nomofilattico della giustizia sportiva secondo il quale “ il principio della responsabilità oggettiva necessita di temperamenti, sia pure rigorosamente interpretati, avuto riguardo ad un esame non formalistico ma sostanziale dell’effettivo legame tra il fatto avvenuto e le specifiche responsabilità della società” che non può e non deve confliggere con l’altro principio cardine per cui “ la responsabilità oggettiva consegue in termini automatici e legali a quella materiale del responsabile fisico, e non può, quindi, in nessun caso, essere elusa, ma solo graduata e misurata nei suoi limiti quantitativi sanzionatori”.
Orbene, la predisposizione tempestiva di un valido modello di organizzazione, gestione e controllo e di un codice etico ex d.lgs n. 231/2001 e, quindi, l’attività preventiva che la società sportiva pone complessivamente in essere, finisce con il coinvolgere il nesso eziologico, la cui sussistenza è imprescindibile anche per gli addebiti di natura oggettiva, ponendo la condotta dell’agente del tutto al di fuori della sfera di signoria dell’ente che rimane così esente e preservato da qualsivoglia infausta ipotesi sanzionatoria.
L’introduzione della frode sportiva nel catalogo dei reati presupposto ex d.lgs. 231/2001. L’importanza sistematica della colpa d’organizzazione
Quanto premesso necessita di un’ulteriore lettura sistematicamente intesa.
Invero, la L. n. 39 del 3 maggio 2019 ha inserito la fattispecie di frode sportiva ut supra (oltre a quella di esercizio abusivo di attività di giuoco o scommessa ex art. 4 L. 401/1989) nel novero dei reati presupposto, la cui configurabilità, al sussistere di certe condizioni, certifica la responsabilità amministrativa dell’ente derivante da reato.
Ora, la responsabilità dell’ente ex d.lgs. 231/2001 si configura allorquando un soggetto alle dipendenze di questo - indifferentemente che rivesta una posizione apicale piuttosto che subordinata nell’organigramma - realizzi un fatto di reato nell’interesse ovvero a vantaggio dell’organizzazione per cui opera. Tale vantaggio o interesse, solitamente è inteso in senso economico, tuttavia, soprattutto in ambito sportivo, sarebbe più opportuno ragionare in termini di utilitaristici lato sensu.
Oltre all’elemento oggettivo appena descritto, con il tentativo di configurare un responsabilità colpevole anche per l’ente, è necessario che sussista una c.d. colpa d’organizzazione, ossia un deficit organizzativo/preventivo da parte dell’ente che non abbia adempiuto adeguatamente ai propri debiti di compliance.
In pratica, la responsabilità dell’ente in tanto sussiste in quanto espressione della policy aziendale.
A riprova di quanto detto, il d.lgs. 231/2001, con un ribaltamento dell’onus probandi, riconosce in capo all’ente la possibilità di escludere la riconduzione “soggettiva” del fatto all’ente dimostrando di aver attuato un efficace M.O.G. e che, dunque, il soggetto agente abbia agito eludendo con destrezza le misure preventive adottate e gli stringenti controlli dell’OdV.
Ebbene, tale impostazione è stata fonte d’ispirazione per uniformare il sistema sanzionatorio complessivamente inteso a più ragionevoli canoni di soggettività, anche quando destinatario del rimprovero è un ente spersonalizzato.
Questo è quanto sta avvenendo anche nella giustizia sportiva ove sino a ieri imperava indomita la responsabilità oggettiva, nonostante le manifeste frizioni con l’ordinamento costituzionale.
Infatti, è ormai pacifico, soprattutto nella giurisprudenza sovranazionale e internazionale, che le sanzioni aventi natura fortemente afflittiva, ancorché non dal punto di formale, sono da considerarsi sostanzialmente penali; pertanto sarebbe parimenti opportuno che si tentasse un adeguamento delle stesse ai canoni costituzionali di colpevolezza.
Riconoscere un rimprovero soggettivo ad una persona giuridica non è semplice, tuttavia, limitare l’oggettività dell’ascrizione della sanzione ai casi in cui essa costituisca il riflesso di una colpa d’organizzazione, appare, a chi scrive, una soluzione quantomeno ragionevole.
Il presente articolo è stato redatto con la collaborazione dell'Avv. Valerio Rochira, Associate presso lo stesso Studio.