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I processi per i reati di lesioni colpose od omicidio colposo derivanti da infortunio sul lavoro sottostanno obbligatoriamente ai principi che governano la responsabilità penale di ogni individuo non diversamente da quanto accade per tutti gli altri reati; la precisazione sembrerebbe persino superflua, eppure all’interno del mondo del lavoro, anche ad alti livelli, non è infrequente percepire la diffusa convinzione che la qualifica di Datore di Lavoro porti con sé lo stigma della pressoché scontata affermazione di responsabilità al verificarsi di qualsiasi infortunio in danno di un lavoratore.
Va detto che la Suprema Corte non risparmia mai di ribadire il principio che la responsabilità del Datore di Lavoro non può essere mai una mera “responsabilità da posizione”, tuttavia l’elevatissimo numero di condanne che si registrano contro i datori di lavoro ed una certa rassegnazione alla possibilità di dover fare i conti con epiloghi processuali percepiti come ingiusti, stanno a dimostrare come non sempre le decisioni in concreto assunte dalla Corte siano del tutto consonanti alle ineccepibili affermazioni di principio, magari contenute nelle stesse sentenze di condanna.
Sono perciò preziose, le pronunce della Suprema Corte che annullano condanne emesse in primo grado ed appello, definendo con fermezza e senza margine di equivoco, il perimetro entro cui possa legittimamente attribuirsi al Datore di Lavoro la responsabilità di un infortunio causato dal mancato rispetto di una regola cautelare da parte del lavoratore.
Ne è un esempio la Sentenza Cass. Pen. Sez. IV 13 gennaio 2021, n. 1096. Il caso riguardava l’infortunio occorso ad un dipendente di un supermercato, addetto al reparto macelleria che si era ferito con una macchina sega ossa, impropriamente usata bypassando le sicurezze idonee ad impedire di tagliarsi.
Dalle dichiarazioni rese dall’infortunato nei precedenti gradi di giudizio, era risultato che l’elusione dei dispositivi di protezione, di cui pure quella specifica macchina era dotata, era una prassi inveterata, atteso che, a suo dire, quei dispositivi ostacolavano i movimenti necessari al taglio dei pezzi di carne più piccoli e che non aveva mai segnalato tale difficoltà, perché tutti ne erano a conoscenza e tutti si comportavano alla stessa maniera.
Per l’infortunio era stato condannato il Datore di Lavoro, Direttore del supermercato, sul presupposto che, essendo quel giorno assente il capo reparto di macelleria, spettava a lui, in quanto “preposto di fatto” vigilare sul corretto utilizzo della macchina da parte del lavoratore, a nulla valendo la circostanza che Il ruolo di gestione e di coordinamento del direttore, da lui rivestito comunque anche quel giorno, escludesse che egli potesse avere contezza delle lavorazioni svolte in ogni singolo reparto del supermercato, al quale risultava comunque preposta la figura del capo reparto, benché assente quel giorno.
L’intervento della Corte ad annullare la condanna ruota intorno al recupero del principio di colpevolezza, sancito dall’art. 27 della Costituzione, un principio cardine della responsabilità penale che deve essere inteso, come ha stabilito la Corte Costituzionale, oltre che come divieto di responsabilità per fatto altrui, anche come responsabilità per fatto proprio colpevole, per cui, dunque, nessuno può essere condannato per un fatto previsto dalla Legge come reato, se non gli possa essere attribuito un profilo di rimproverabilità.
In questo senso la Corte richiama alla corretta nozione ed applicazione del principio della colpa nel diritto penale che ha, ricorda, un versante oggettivo, incentrato sulla condotta posta in essere in violazione di una norma cautelare, e un versante di natura più squisitamente soggettiva, connesso alla possibilità dell’agente di osservare la regola cautelare. Il rimprovero colposo postula, dunque, la realizzazione di un fatto di reato che poteva essere evitato mediante l’osservanza delle norme cautelari violate e comprende un profilo soggettivo e personale che viene generalmente individuato nella possibilità soggettiva dell’agente di rispettare la regola cautelare, ossia nella concreta possibilità di pretendere l’osservanza della regola stessa: in sostanza, nell’esigibilità del comportamento dovuto. Si tratta di un aspetto che si colloca nell’ambito della colpevolezza, in quanto esprime il rimprovero personale rivolto all’agente.
Correttamente ridisegnati i confini che consentono di affermare una responsabilità per colpa, la Corte annulla la condanna del direttore del supermercato, pur ritenendo corretta l’attribuzione della qualifica di preposto di fatto per l’assenza del capo reparto, valorizzando il dato che fosse stato nominato da soli cinque giorni. Circostanza che, in assenza di prove solide a contrario, non permetteva di affermare che fosse a conoscenza della riferita prassi di usare le macchina segaossa bypassando le protezioni, e quindi che il fatto potesse essere in qualche modo a lui rimproverabile. Pertanto quando, come in questo caso, non vi siano elementi di carattere logico per dedurre la conoscenza o la conoscibilità di prassi aziendali incaute da parte del garante, si porrebbe in capo alla figura che riveste una posizione di garanzia una inaccettabile responsabilità penale “di posizione“, tale da sconfinare nella responsabilità oggettiva.
La decisione della Corte merita certamente ogni lodevole apprezzamento, ben conoscendo quanto sia difficile sfuggire alle insidie della responsabilità di posizione che infatti erano costate al direttore la condanna in primo e secondo grado. Nondimeno, rimane sullo sfondo della pronuncia un profilo che induce ad una riflessione.
La Corte, come visto, non ha censurato la qualifica di “preposto di fatto” attribuita al direttore dai Giudici di merito. E poi, ha annullato la condanna sul presupposto che, avendo assunto la carica (di direttore) da soli cinque giorni, egli non conoscesse – non potesse pretendersi che conoscesse – l’esistenza di una prassi errata, ammesso che vi fosse, o comunque che il lavoratore quel giorno usasse la macchina senza protezioni; esimente che, a ben vedere, può essere invocata più logicamente (e comunque sempre) dal direttore piuttosto che dal preposto, quest’ultimo deputato per legge a sovrintendere al lavoro attraverso un controllo più diretto delle lavorazioni, ed in grado di conoscerne le deviazioni dalle regole a prescindere dal tempo trascorso dalla nomina.
In altre parole, Il ragionamento sarebbe stato senz’altro più lineare se la Corte, chiarendo la figura del “preposto di fatto” definita dall’art. 299 del D.Lgs 81/08 (che recita “Le posizioni di garanzia relative ai Datore di lavoro, dirigenti e preposti, gravano altresì su colui il quale, pur sprovvisto di regolare investitura, eserciti in concreto i poteri giuridici riferiti a ciascuno dei soggetti ivi definiti”), ne avesse escluso la configurabilità in capo al direttore nel caso di specie, avesse poi espressamente fatto riferimento al suo ruolo di Datore di Lavoro, ai suoi compiti di gestione e coordinamento dell’esercizio commerciale, comunque sempre incompatibili con una vigilanza stretta in un grande supermercato organizzato, per poi infine aggiungere che nel caso di specie, in assenza di qualsivoglia segnalazione, non vi fossero elementi per dedurre in capo allo stesso la conoscenza di alcuna prassi errata, o pretenderne la conoscibilità, anche ad abundantiam per il minimo lasso di tempo trascorso dalla nomina. Al contrario affermarne erroneamente il ruolo di preposto di fatto si presta all’obiezione che, essendo deputato a sovrintendere alle lavorazioni, avrebbe ben potuto/dovuto sorvegliare il lavoro ed impedire usi impropri della macchina.
La Sentenza si presta ancora ad ulteriori due considerazioni:
- La prima, consentire il lavoro in un reparto senza il capo, anche temporaneamente, non è scelta priva di rischi che possono sfociare in una contestazione di colpa nei confronti del datore di lavoro, se non si prendono provvedimenti organizzativi idonei, non necessariamente implicanti il subentro di un sostituto: il tema di prova è rimasto totalmente ed inspiegabilmente inesplorato nel processo.
- Vi è infine la questione più controversa e su cui la giurisprudenza dovrebbe davvero aprire una coraggiosa e profonda riflessione, all’alba del XXI secolo, cioè se è corretto chiamare in causa comunque il datore di lavoro una volta che sia stata messa a disposizione del lavoratore una macchina dotata di tutte le sicurezze idonee e si sia infortunato avendole bypassate per scelta.