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Il concetto di “Internet of things”
Con l’espressione “Internet of things” ci si riferisce comunemente ad una rete di oggetti collegati tra loro e dotati di tecnologie di identificazione in grado di far sì che gli stessi possano comunicare sia tra loro sia verso punti nodali del sistema informatico. Attraverso l’utilizzo di questa tecnologia è, quindi, possibile organizzare un network di dispositivi capaci di dialogare tra di loro, di raccogliere dati e informazioni dall’ambiente circostante e di reagire alle informazioni ricevute senza la necessità dell’intervento umano.
Per rientrare nella categoria dell’“Internet of things”, sensori e dispositivi devono possedere dure semplici caratteristiche:
un indirizzo IP univoco per consentire l’identificazione in rete;
la capacità di scambiare dati senza l’intervento umano.
All’interno dell’“Internet of things”, le comunicazioni avvengono, generalmente, tramite l’uso di strumenti di comunicazione IP (dall'inglese Internet Protocol address). I dati raccolti vengono, poi, trasmessi ad una piattaforma, nella quale vengono immagazzinati, elaborati ed analizzati, per essere, quindi ed infine, messi a disposizione dell’utente tramite un’interfaccia.
Molti degli oggetti che usiamo quotidianamente rientrano nel concetto di “Internet of things” (si pensi, ad esempio, ai termostati o agli altri elettrodomestici connessi tra loro, agli smart watch, etc.), tanto che, secondo le stime di Gartner, lo scorso anno gli oggetti connessi tra loro risultavano circa 8,3 miliardi, con una previsione, per il 2020, di ben 20,4 miliardi.
L’applicazione al contesto della sicurezza sul lavoro
L’“Internet of things” rappresenta una grande opportunità per tentare di migliorare la sicurezza sul lavoro, fornendo una tecnologia dalle potenzialità fino a qualche anno fa nemmeno immaginabili.
I nuovi sviluppi tecnologici sembrano, infatti, in grado di fornire ai lavoratori strumenti capaci di segnalare le più diverse situazioni di pericolo.
Tra i dispositivi più avanzati, si possono citare, in particolare:
apparecchi in grado di comunicare direttamente con la centrale di monitoraggio e di rilevare un impatto da caduta (definiti comunemente come “dispositivi uomo a terra”);
strumenti in grado di monitorare le dispersioni di gas e di lanciare l’allarme in automatico, attivando il processo di primo soccorso. Tali dispositivi consentono anche di emettere allarmi silenziosi nel caso in cui un lavoratore risulti vittima di un’aggressione;
tute da lavoro in grado di verificare l’integrità della tuta stessa o di segnalare potenziali situazioni di pericolo come, in particolare, il rischio di schiacciamento o la vicinanza del lavoratore ad un’area di manovra di mezzi in movimento, e ciò tramite apposite antenne installate nei reparti produttivi.
La combinazione delle tecnologie offerte dall’’“Internet of things” ai DPI apre quindi nuovi scenari nella tutela della salute e sicurezza dei lavoratori, offrendo ai datori di lavoro nuovi strumenti nella prospettiva di eliminazione o riduzione al minimo dei rischi connessi alla prestazione lavorativa. Ove si consideri, infatti, che una quota piuttosto rilevante degli infortuni sul lavoro è dovuta allo scorretto utilizzo dei DPI, tali strumenti offrono prospettive di miglioramento nella gestione delle misure di prevenzione potenzialmente illimitate.
I DPI diventerebbero, infatti, strumenti di sicurezza non solo passiva, ma anche e soprattutto attiva, nel senso che la prevenzione degli incidenti avverrebbe anche grazie ad un dialogo automatico, costante e sempre aggiornato tra i dispositivi di protezione, l’ambiente di lavoro e i lavoratori stessi.
Quali i possibili limiti all’applicazione dell’“Internet of things” ai DPI?
Un interrogativo che da subito ha occupato gli operatori del settore è come tali strumenti possano conciliarsi con le norme sui controlli a distanza dei lavoratori e, più in generale, con le finalità connesse alla normativa sulla tutela della privacy.
Per quanto attiene al primo aspetto, infatti, è noto come l’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, a seguito delle modifiche apportate dal D. Lgs. n. 151/2015, preveda che l’installazione di strumenti da cui possa derivare anche il controllo a distanza dei lavoratori sia ammessa solo per determinati fini (esigenze organizzative e aziendali, tutela della sicurezza del lavoro e tutela del patrimonio aziendale) e previa concertazione con le rappresentanze sindacali (art. 4, comma 1). La stessa norma prevede, poi, una deroga espressa per quanto riguarda gli «strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa» (art. 4, comma 2).
In merito è stato osservato, anche attraverso un’interpretazione sistematica del complesso normativo, che i dispositivi di protezione individuale (DPI), nel momento in cui sono previsti come obbligatori dal documento di valutazione dei rischi (DVR), possano essere annoverati tra gli strumenti di lavoro necessari “per rendere la prestazione lavorativa” in sicurezza, rientrando, così, nella deroga di cui all’art. 4 comma 2 dello Statuto dei lavoratori.
Per quanto attiene, poi, al secondo aspetto sopra citato, non va dimenticato che tutti i dati raccolti dai DPI “intelligenti” devono, comunque, essere collezionati ed utilizzati nel pieno rispetto delle norme sulla protezione dei dati personali, a pena di illegittimità. Lo stesso art. 4 comma 3 dello Statuto dei lavoratori specifica, infatti, che “le informazioni raccolte (…) sono utilizzabili a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro a condizione che sia data al lavoratore adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli e nel rispetto di quanto disposto dal decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196” [a breve Regolamento UE 2016/679 - ndr].
Ciò consente, quindi, il contemperamento, da un lato, delle esigenze di rispetto della privacy del singolo lavoratore e, dall’altro, il perseguimento delle altrettanto fondamentali esigenze di tutela sempre maggiore della salute e sicurezza sul luogo di lavoro.
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Con il contributo dell'Avvocato Francesca Masso, Partner at B&P Studio Legale