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Avvocato Rellini, inizierei la nostra intervista con qualche cenno sulla sua storia professionale. Lei è stato il responsabile dell’area compliance di uno dei maggiori studi legali italiani. Può raccontarci brevemente questa esperienza?
Ricorderò quella esperienza come la sfida più grande della mia carriera. Soprattutto quando ho dovuto spiegare ad uno dei tre fondatori dello studio – quello che era stato mio Maestro – per quale motivo era giusto smettere di seguire i clienti e mettersi al servizio dello Studio Istituzione. Chi lo ha conosciuto può immaginare il livello della sfida…
Si sente spesso parlare di compliance all’interno delle aziende, ma decisamente poco, se non quasi niente, di compliance all’interno degli studi professionali. Qual è a suo avviso la ragione di questo disallineamento? È un tema meno rilevante per una realtà professionale? Eppure sono solitamente proprio gli avvocati ad occuparsene all’interno delle imprese.
In realtà se ne parla eccome. Ad esempio, io ho avuto l’onore di contribuire alla stesura delle linee guida in materia antiriciclaggio in seno all’ASLA (Associazione Studi Legali Associati). E diversi studi hanno adottato modelli organizzativi analoghi a quelli delle aziende. Sicuramente le aziende – se allude a questo – su certi temi hanno meno pudore di noi. Ma occorre tener conto del fatto che il processo di istituzionalizzazione degli studi professionali è ancora in corso; e non esiste una vera compliance, senza una autentica base istituzionale. A ciò si aggiunga che gli organismi di autoregolamentazione delle professioni (al contrario delle autorità di vigilanza sugli intermediari finanziari, ad esempio) per il momento non hanno dato particolari indicazioni su come debba essere strutturata una funzione interna di compliance e i relativi controlli.
Quali sono i benefici di un approccio strutturato in termini di compliance per lo studio professionale? E secondo lei è un aspetto che dovrebbe interessare anche gli studi boutique? Esiste una “soglia”, a suo avviso, perché il tema assuma una rilevanza significativa?
Per i regolatori questa soglia di solito non esiste. Se lei apre uno studio professionale di due persone nella zona franca di Dubai, ad esempio, dovrà istituire un “money-laundering reporting officer”, e metterlo in condizione di gestire una procedura interna, che include una precisa reportistica nei confronti dell’autorità. Ma anche nel caso delle meno “esotiche” regole tecniche del Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti, la soglia dimensionale per l’istituzione di un responsabile antiriciclaggio, è stata fissata in appena due professionisti.
Di solito le normative tengono conto dell’aspetto dimensionale per consentire una qualche forma di esternalizzazione. Ma, se si parla di “job rules” (antiriciclaggio sicuramente, ma anche dati personali e informazioni privilegiate) il presidio deve esistere sempre e comunque, altrimenti il business, nel medio e lungo periodo, diventa insostenibile. Esiste sicuramente una massa critica, un punto oltre il quale, se lo studio si è dotato di una serie di processi interni, a prescindere dalle dimensioni, deve necessariamente porsi il problema anche dei processi di compliance. Qualcuno ha detto che l’alternativa alle regole, non è la libertà, ma l’arbitrio (in politica) o l’inefficienza (in economia).
Infine, molto dipende anche dal portafoglio clienti: quelli più strutturati e regolamentati, spesso ci vedono come “business partners”, ragion per cui certe policies diventano “contagiose” (v. ad esempio quelle “anti-bribery”) e occorre dare prova di grande “empatia”.
Quali sono le persone interne allo studio legale che dovrebbero formarsi e incaricarsi di gestire la compliance e i rischi strategici? Qual è la mole e il tipo di lavoro necessario per un approccio “serio”?
Se non conosci il mestiere, neppure lo puoi regolare, e questo vale a tutti i livelli della catena. Pertanto, sono convinto che l’ideale “owner” dei processi di compliance di uno studio legale, sia sempre un (ex)professionista. Per il resto, la funzione compliance è un abito sartoriale. Inoltre, a differenza delle altre funzioni di tipo aziendale, tende ad essere sempre piuttosto “diffusa” (di qui l’importanza dei processi di formazione). La mole di lavoro, d’altra parte, dipende molto dalle practices: se si parla di studi legali d’affari, so per esperienza che la mole è molto significativa, e se ne esce solo facendo largo uso di strumenti informatici.
Chiudiamo con un riferimento all’attualità. Stiamo vivendo una situazione di emergenza sanitaria senza precedenti, la compliance in questa nuova situazione assume per le organizzazioni, studi professionali inclusi, una rilevanza forse nuova. Crede che questo “scossone” possa, nonostante le infauste circostanze, far emergere anche una maggiore sensibilità e comprensione sulla rilevanza di un approccio strategico alla compliance?
Giustamente è stato detto che questa emergenza sanitaria costituisce uno “stress-test” per tutte le procedure interne di compliance. Infatti, occorre prontamente implementare nuovi protocolli di prevenzione, che porteranno con sé, ad esempio, nuovi trattamenti di dati personali. Occorre poi considerare le difficoltà economiche conseguenti al prolungato periodo di lockdown, che hanno già indotto le Autorità a richiamare i professionisti (e soprattutto quelli che intervengono nella gestione di beni immobili e attività economiche) alla scrupolosa applicazione delle norme antiriciclaggio.
Più in generale, vedo anche temi di carattere politico. Questa emergenza, infatti, è un grosso laboratorio di compliance; come un evento climatico che, in un più generale contesto di “global warming”, renda evidente lo scioglimento dei ghiacciai anche a chi non è abituato ad andare in montagna. È chiaro che la paura è una leva potente. E tante persone hanno reagito proprio facendo gli “sceriffi” (nella nostra materia si dice “whistleblowers”). Per i professionisti, i ghiacciai che si stanno sciogliendo sono anche altri: il segreto professionale, ad esempio, che rischia di fare la fine del segreto bancario, pur avendo ben altra dignità. Pertanto, credo davvero che sia arrivato il momento di occuparci di compliance, se vogliamo evitare che sia la compliance a occuparsi di noi.
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