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La scelta del Managing Partner
Il processo di scelta del Managing Partner non deve essere sottovalutato. Intanto è necessario che la persona destinata al ruolo abbia dei requisiti oggettivi, a cui debbono necessariamente accompagnarsi delle caratteristiche soggettive. È fondamentale che nell’esprimere le candidature la law firm selezioni, attraverso un processo affidato a un apposito Comitato (se non, addirittura auspicabile, con la validazione di un Consulente esterno specializzato) nominato dall’Assemblea dei Soci Equity, coloro che mostrano le qualità idonee per il miglior svolgimento dell’incarico.
Ci sono alcuni requisiti oggettivi che tracciano il profilo tipico del Managing Partner. Passiamoli in rassegna.
- Si deve trattare di un Equity Partner che abbia un book of business di entità significativa, possibilmente il più dimensionato o tra i più articolati dello Studio, meglio se sviluppato in una practice non specialistica, tipo corporate, banking and finance o litigation e capace di originare mandati anche per le altre practice, essendo però capace di comprenderne le esigenze e peculiarità. Questo fattore è assai importante perché per svolgere un ruolo di leadership (tale è la posizione in questione) la persona prescelta deve essere credibile agli occhi dei suoi interlocutori, siano essi Partners, Associates o Staff e siccome il successo di un/una professionista all’interno di una law firm passa inevitabilmente anche, se non soprattutto, attraverso la metrica del suo contributo al benessere economico-finanziario della law firm medesima, questo parametro dovrà risultare presente, tangibile e cospicuo.
- Da non sottovalutare il peso del lavoro riferito ad altri dipartimenti: infatti la capacità di cross-selling all'interno e l’abilità di coinvolgere altre practice è tra i compiti principali di un Managing Partner e se ella/egli aveva dimostrato di saperlo fare con continuità anche prima di essere eletto, la sua azione risulterà ancora più incisiva e convincente, perché coerente.
- Nel mondo contemporaneo e futuro non può esistere che una leadership “di servizio”, a maggior ragione nelle organizzazioni orizzontali come le law firm. Questa predisposizione deve caratterizzare in maniera predominante le caratteristiche soggettive del candidato/a. Il "capo" dispotico, autoritario e non autorevole, mai o raramente disponibile al dialogo e al confronto, insofferente o impermeabile alle critiche e ai suggerimenti degli altri partner non verrebbe “digerito” e la sua azione ordinativa e perentoria alla lunga può portare a traumi irreparabili per l’organizzazione e, in casi estremi, anche alla sua implosione.
- La durata dell’incarico non può essere né troppo breve, né troppo lunga. Considerata la velocità di trasformazione del contesto attuale si suggerisce un periodo biennale, soggetto ad eventuale riconferma. Non necessariamente occorre limitare il numero degli eventuali rinnovi, poiché quel ricambio “forzoso” che normalmente rappresenta un valore nelle governance moderne, potrebbe risultare controproducente in molte situazioni concrete. Per esempio in tutte quelle circostanze (e sono ancora la maggior parte) in cui il Managing Partner continua anche a essere attivo nello svolgimento dell’attività professionale è bene che ella/egli possa continuare a svolgere il “doppio lavoro”, almeno finché le due performance continueranno a risultare soddisfacenti. Soprattutto le organizzazioni che non possono permettersi di remunerare il Managing Partner per fare solo quello debbono rifletterci bene prima di instaurare un regime di rotazione forzata tra i partner medesimi. Non tutti i partner che hanno i talenti oggettivi e soggettivi descritti sono in grado di reggere gli stress derivanti da questa duplice responsabilità.
- Molti non sono nemmeno interessati al ruolo e non vanno in alcun modo “obbligati”. Gli spiriti “egoistici” poi, non sono necessariamente moralmente inferiori; in un contesto legittimamente e istituzionalmente orientato al profitto, costituiscono anzi un motore e una spinta insostituibile. Ma non sono certamente i più indicati per la posizione in questione. Il profilo psicologico ideale del candidato sarà preferibilmente quella dell’altruista, sicuro ma attento al giudizio altrui, mai avido e sempre generoso, in particolar modo nel dedicare il proprio tempo agli altri colleghi e ad attività che sono legate al bene comune, ma non necessariamente hanno un ritorno diretto e immediato per sé stesso.
- Il Managing Partner ideale nel 2018 sarà un incrocio fra un ottimo avvocato, non troppo innamorato delle proprie idee e soprattutto non ossessionato dall’imporle ad ogni costo e pronto invece ad ascoltare i suggerimenti altrui e a valorizzarli, e un “Coach” capace di consigliare i propri partner, in maniera competente e credibile, su come irrobustire la propria practice e dedicare il giusto tempo e le tecniche opportune al client development.
- Una basica conoscenza delle principali materie aziendalistiche e soprattutto una consuetudine e dimestichezza coi numeri e le loro implicazioni sono inoltre imprescindibili.
Se poi il soggetto in questione è pure dotato di senso strategico e possiede cognizioni di marketing di posizionamento ecco che avremo il prototipo del Managing Partner sostanzialmente perfetto per quasi tutte le law firm ad oggi presenti sul mercato.
La funzione e le responsabilità
Il Managing Partner deve anzitutto essere supportato da un valido Comitato di Gestione della law firm, con cui potersi confrontare e da cui ricevere stimoli, idee, indicazioni e perché no, critiche. Anche in questo caso è essenziale che tale Comitato, normalmente eletto dall’Assemblea degli Equity Partners (la stessa chiamata ad eleggere l’MP tra i candidati selezionati dall’apposito Comitato) sia composto dai Soci più “pesanti” all’interno dell’Associazione, questo perché la guida dello Studio deve trovare la sua sintesi tra i partners più rappresentativi, per essere efficace. Inoltre deve essere coadiuvato da un management operativo, non di formazione legale, che possa occuparsi di tutti gli aspetti funzionali ed esecutivi legati alla gestione e all’amministrazione dell’attività. Un direttore generale, un cfo, un marketing manager, un responsabile IT costituiscono e rappresentano l’ipotesi minimale.
Il Managing Partner deve elaborare, d’intesa col Comitato di Gestione la strategia della law firm e il piano triennale o quinquennale per implementarla. Essa passerà attraverso il rafforzamento delle aree di eccellenza dello Studio, si attiverà attraverso il Lateral Recruiting o addirittura le operazioni straordinarie di integrazione con altre realtà, insieme a una diligente e minuziosa attività di budgeting e di reporting che consentano il monitoraggio delle performance individuali e il raggiungimento degli obiettivi aggregati stabiliti nel piano pluriennale e nel budget dell’anno di riferimento. Inoltre dovrà elaborare le azioni volte al presidio delle aree di rischio (conflict check, anti-riciclaggio, assicurazione, corretto inquadramento del personale e dei collaboratori), nonché al puntuale adempimento di tutta la compliance, normativa, deontologia contabile e fiscale, naturalmente con l’indispensabile aiuto del direttore di Studio e di apposite commissioni composte da altri partner.
Going forward
La probabilità che negli anni a venire la figura del Managing Partner sarà sottoposta a una profonda revisione da parte dei principali attori dell’industry legale è assai elevata. L’apertura a nuove forme di organismi abilitati all’esercizio dell’avvocatura (ABS, società tra professionisti, società di capitali e addirittura di studi legali quotati – per ora solo in Australia) nonché le enormi sfide che il mondo delle law firm è chiamato ad affrontare (competizione esasperata, concorrenza delle società di revisione, software sempre più sofisticati e soprattutto l’incognita dell’intelligenza artificiale applicata ai servizi legali) inevitabilmente costringerà il ripensamento del profilo e del ruolo del Managing Partner, oggi proveniente in via sostanzialmente esclusiva dalle fila degli avvocati – partner dello Studio. In futuro non è difficile immaginare anzitutto che tale figura diventi esclusivamente dedicata alla gestione e non più divisa tra amministrazione e attività professionale, con una remunerazione ad hoc (magari, anzi senz’altro, in tutto o in parte correlata ai risultati). Inoltre non richiede particolare fantasia il prevedere che manager di formazione tradizionale, non avvocati e privi di un background strettamente legale, occuperanno la casella, apportando nuove competenze di matrice maggiormente aziendalistica. Con la inevitabile conseguenza che l'approccio sarà marcatamente più numerico che umanistico. Fondamentale diventerà poi lo sviluppo di una corretta governance. Il bilanciamento tra il ruolo del Managing Partner e quello del Senior Partner (o Chairman) costituirà la diarchia del potere all'interno della law firm, con una ripartizione dei checks and balances tale da garantire la miglior dialettica possibile in uno studio professionale dove ogni partner (soprattutto se managing) tende a sentirsi (erroneamente) un po' troppo “dominus” a casa propria. A questo ultimo proposito il contributo che potrà dare l'esistenza di un Comitato Esecutivo (Comitato di Gestione) che sia veramente rappresentativo delle varie anime della law firm e delle personalità più eminenti della stessa, diventerà di fondamentale supporto (e di "contenimento") all'azione del Managing Partner. Il Comitato di Gestione sarà infatti la camera di compensazione delle diverse tendenze esistenti nell'organizzazione e il foro della composizione naturale delle inevitabilmente differenti necessità e degli interessi di cui ogni partner è legittimo portatore.