09 Maggio 2020

La responsabilità degli amministratori per il danno patito dalla società nel nuovo Codice sulla Crisi d’Impresa

GIUSEPPE ROCHIRA

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Abstract

In virtù delle modifiche apportate dall’art. 378 del nuovo Codice della Crisi d’Impresa agli artt. 2476 e 2486 cod. civ., è certo l’incremento delle future azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori, essendo stata, inoltre, estremamente semplificata – ipso jure – la quantificazione del danno patito dalle società fallite.

L’enormità del passivo, insieme all’esiguità dell’attivo, che il curatore (o il commissario straordinario) trova nelle procedure concorsuali, sollecitano oltremodo, tra le altre azioni a tutela dei creditori, l’esercizio dell’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori, oltre che nei confronti di altri organi sociali (sindaci, revisori, direttori generali e liquidatori).

Proprio in relazione a quest’azione in molti casi si è posta la questione concernente la quantificazione del danno, che oggi sembra essere stata – più o meno semplicisticamente – risolta dall’art. 378 della L. 155 del 2017 entrata in vigore in parte qua il 16/03/2019.

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Brevi spunti sull’azione di responsabilità avverso gli amministratori e la quantificazione del danno da essi cagionato

Come noto, l’azione di responsabilità nei confronti degli organi sociali, che siano di amministrazione, di direzione, ovvero di controllo, è da intendersi come unitaria, a prescindere dal fatto che legittimato a esperirla sia la società ovvero i creditori di questa.

Il panorama giurisprudenziale su tali azioni nell'ambito dei fallimenti rende conto del fatto che, talvolta, gli amministratori agiscono difformemente a quanto disposto dall’art. 2486, c.c., specialmente quando si trovano di fronte ai casi di riduzione del capitale al di sotto del limite legale; si fa riferimento alle fattispecie di cui agli artt. 2447 c.c. per le s.p.a. ovvero 2482-ter c.c. per le s.r.l..

Invero, probabilmente anche a causa dell’indeterminatezza della lettera di entrambe le norme, esso non viene rimpinguato entro il termine del “senza indugio” riferito alla data di convocazione dell’assemblea che deve deliberare la ricapitalizzazione o la messa in liquidazione della società.

L’esperienza ha dimostrato che è piuttosto frequente il caso in cui gli amministratori, anziché adempiere alle suddette disposizioni, decidendo di far ricapitalizzare la società o di dichiarare lo stato di scioglimento e far deliberare la messa in liquidazione, non accettano la cessazione della propria attività imprenditoriale e preferiscono seguire la via (non consentita) di continuare a esercitare l'attività, fin quando i debiti non sono diventati più gestibili e sopraggiunge il fallimento.

Ovviamente la frequenza di queste condotte di mala gestio è tipica di quegli amministratori che non hanno sotto controllo i conti della società, ovvero non hanno contezza delle perdite in corso d’esercizio (comportando nei casi più gravi la riduzione del capitale sociale al di sotto del limite legale), oppure, avendo contezza della necessità di intervento insistono nella prosecuzione delle attività sociali, in tal guisa facendo emergere in tutta evidenza la loro mala fede.

Sicché, accertata in sede fallimentare la sussistenza di condotte degli amministratori in violazione di doveri imposti dalla legge (o dallo statuto), arriva il momento di quantificare il danno che la società ha patito, risultando in molti casi difficile, specialmente quando mancano o sono incomplete le scritture contabili, ovvero, quando non si ha certezza esatta della data in cui il patrimonio netto è diventato negativo, prima della data di dichiarazione di fallimento.

In thema di quantificazione del danno patito dalla società per gli inadempimenti degli amministratori, la giurisprudenza della Corte di Cassazione (recepita da quella di merito) aveva già consentito in alcuni casi di identificare il danno anche in modo sintetico, ammettendo la sua determinazione col metodo della differenza fra attivo e passivo fallimentare.

Anche nell’ipotesi in cui sia trascorso molto tempo fra le condotte degli amministratori che portano all'azzeramento del capitale e l'azione di responsabilità intentata dal fallimento, circostanza che può rendere più difficoltosa la ricostruzione analitica delle voci di danno, la giurisprudenza di merito aveva affrontato il thema e consentito il ricorso alla liquidazione in via equitativa del danno.

Con la sentenza n. 7534, del 05.07.2017, ad esempio, il Tribunale di Milano ebbe modo di statuire che, quando viene accertata l'impossibilità di ricostruire i dati contabili con l'analiticità necessaria per individuare le conseguenze dannose riconducibili al comportamento dell'amministratore, ovvero, quando il lungo tempo trascorso fra la data di perdita del capitale sociale e il momento finale in cui va determinato il danno complessivamente cagionato al patrimonio sociale, è ammesso il ricorso al criterio differenziale di determinazione del danno in via equitativa.

Prima dell’entrata in vigore della novella introdotta con l’art. 378 del codice della crisi d’impresa, dunque, ricorrendo i citati presupposti individuati dalla giurisprudenza, la valutazione equitativa del danno rappresentava una modalità accessoria e subordinata rispetto al pieno accertamento dell'ammontare del danno. L'art. 1226 c.c. prevede, infatti, che solo “se il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare è liquidato dal giudice con valutazione equitativa”.

Pertanto, senza la riforma, i giudici dovevano in primis valutare la possibilità di accertare il danno in modo analitico, e, solo nei casi in cui si rendevano conto dell'impossibilità di una ricostruzione analitica, potevano ricorrere, come ricorrevano, al metodo equitativo sopra illustrato.

 

Le modifiche apportate dalla novella alla parte del codice civile che già regolava l’azione di responsabilità avverso gli amministratori

L’art. 378 del nuovo codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza ha modificato innanzitutto l’art. 2476 c.c., introducendo un nuovo comma dopo il quinto, con cui si disciplina espressamente la responsabilità degli amministratori verso i creditori sociali (cfr. art. 2394 c.c. già in vigore per le S.p.A.) per l'inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell'integrità del patrimonio sociale, e contemporaneamente si specifica il rimedio per i creditori ai casi di rinunzia all’azione, piuttosto che di transazione. Infatti, per un verso la rinunzia della società non spiega effetti per i creditori che possono comunque agire quando non soddisfatti dall’attivo patrimoniale; per altro verso anche la transazione, ove ne ricorrano i presupposti, può essere impugnata in revocatoria.

Se però la modifica dell’art. 2476 c.c. costituisce una tipizzazione della prassi d’impresa, quella che interessa l’art. 2486 c.c., viceversa, è positivizzazione della prassi giurisprudenziale, ancorché questa applicasse il principio ora normato solo in via residuale come spiegato ut supra.

Determinare il danno patito dalla società, dunque, con ogni probabilità ora sarà molto più semplice.

Il novellato art. 2486 co. 3, c.c prevede proprio il caso specifico in cui i giudici possono ricorrere a una valutazione “sommaria” del danno, avendo tra l’altro stabilito che “se è stata aperta una procedura concorsuale e mancano le scritture contabili o se a causa dell'irregolarità delle stesse o per altre ragioni i netti patrimoniali non possono essere determinati, il danno è liquidato in misura pari alla differenza tra attivo e passivo accertati nella procedura”.

A certificare la novella sopra richiamata, è già intervenuta la Corte Suprema di Cassazione.

Con la sentenza del 30 settembre 2019, n. 24431, infatti, la prima sezione della Corte nomofilattica, intervenendo sempre in punto di determinazione del danno e richiamando proprio il contenuto dell’art. 378 del codice della crisi d’impresa, dunque, quanto disposto dall’attuale art. 2486, co. 3, c.c., ha statuito il principio secondo cui: deve ritenersi ammissibile la liquidazione del danno in via equitativa: sia nella misura corrispondente alla differenza tra il passivo accertato e l'attivo liquidato in sede fallimentare, qualora il ricorso ad un tale parametro si palesi, in ragione delle circostanze del caso concreto, logicamente plausibile per avere il curatore allegato, indicando le ragioni che gli hanno impedito l'accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell'amministratore, inadempimenti da parte dello stesso che risultino idonei a porsi quali cause del danno lamentato; sia con ricorso, in presenza degli stessi presupposti e nell'impossibilità di una ricostruzione analitica per incompletezza dei dati contabili o per la notevole anteriorità della perdita del capitale sociale rispetto alla dichiarazione di fallimento, al criterio presuntivo della "differenza dei netti patrimoniali”.

In conclusione, soprattutto laddove abbiano reso impossibile la ricostruzione della situazione economico-finanziaria, la responsabilità per i danni patiti dalla società - che si riflettono ovviamente sui quelli patendi dai creditori - viene interamente ascritta agli amministratori anche in via equitativa, ossia sulla base della differenza dei netti patrimoniali ante et post fallimento. Beninteso, la portata innovatrice della novella consiste essenzialmente nell’aver certificato l’inversione del onus probandi in capo all’amministratore inadempiente. Invero, se come detto, prima la giurisprudenza era solita ricorrere alla quantificazione per differenza dei netti patrimoniali solo in via residuale, ora vi è la presunzione relativa che il danno sia determinabile in questi termini, ma spetta al danneggiante la prova contraria.

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