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Il reato di cui all’art. 438 c.p.[1] sanziona con l’ergastolo chiunque “cagion[i] un'epidemia mediante la diffusione di germi patogeni”. La medesima condotta è altresì punita (con la reclusione da uno a cinque anni) quando sia commessa a titolo di colpa, in virtù del richiamo operato dall’art. 452 c.p.
Procedendo con la disamina degli elementi costitutivi del reato, funzionale a vagliare la possibile configurabilità della fattispecie nei casi di diffusione del COVID-19[2], la formulazione letterale della disposizione suggerisce anzitutto trattarsi di un reato a forma “vincolata”, dovendo l’agente cagionare un’epidemia mediante la diffusione di germi patogeni.
Quest’ultima nozione contribuisce peraltro a denotare i contorni del delitto in esame: con tale sintagma si intende infatti indicare una particolare malattia infettiva che colpisce contemporaneamente un gruppo rilevante della popolazione e che si configura quale evento del reato, cagionato attraverso la propagazione volontaria (o colpevole) di germi patogeni di cui l’agente sia infettato.
In dottrina, risulta tuttora dibattuta la natura “di danno” o “di pericolo” del delitto[3].
Secondo un primo orientamento, trattasi di un reato di danno per la salute della collettività: la lesione dovrà concretizzarsi nella diffusione dell’agente patogeno, lasciando il pericolo dell’ulteriore potenzialità espansiva quale mèro effetto eventuale del contagio.
Altra parte della dottrina reputa l’epidemia un reato di pericolo concreto, costituito da una tangibile minaccia per la salute pubblica (non rileverà, in questo senso, il numero di soggetti contagiati, ma soltanto la possibilità che questi possano diffondere in modo esponenziale la malattia). L’assenza del rischio di una diffusione incontrollata dell’epidemia, appunto, farà venir meno il reato.
Risolutiva, in tal senso, appare una recente elaborazione giurisprudenziale secondo cui la fattispecie sarebbe caratterizzata “sia da un evento di danno, rappresentato dalla concreta manifestazione, in un certo numero di persone, di una malattia eziologicamente ricollegabile ai germi patogeni, sia da un evento di pericolo, rappresentato dall’ulteriore propagazione della malattia a causa della capacità dei germi di trasmettersi ad altri individui anche senza l’intervento dell’autore della originaria diffusione”[4].
In breve, oltre alla verificazione di un evento infettivo nelle forme poc’anzi esaminate, sarà necessario che il contagio risulti pericoloso per un numero indeterminato e rilevante di persone[5], come potrebbe d’altronde capitare per le manifestazioni epidemiologiche dell’odierno “coronavirus”.
Con riguardo al profilo soggettivo, il pronome chiunque (che caratterizza il delitto quale “reato comune”) parrebbe rendere applicabile la disposizione sia a soggetti non direttamente “portatori” dell’agente patogeno – si pensi al personale sanitario che in considerazione dell’attività lavorativa svolta vi venga in contatto – sia a chi risulti positivo al virus e ne abbia causato la diffusione.
Invero, è stata recentemente ammessa la configurabilità del reato qualora “la diffusione dei germi patogeni avvenga anche per contatto diretto fra l’agente, che di tali germi sia portatore, ed altri soggetti” con l’ulteriore, già precisato, requisito che “da un tale contatto de[bba] derivare la incontrollata e rapida diffusione della malattia tra una moltitudine di persone” [6].
Con riferimento invece alla condotta materiale integrativa della fattispecie, una significativa sentenza della Suprema Corte[7] (con specifico riferimento alla forma colposa del reato) ha inteso restringere l’ambito applicativo della fattispecie alle sole condotte commissive, essendo la formulazione della norma – secondo la Cassazione – incompatibile con il disposto dell’art. 40 cpv. c.p. (posto a fondamento della configurabilità dei reati omissivi impropri), peraltro riferibile unicamente alle fattispecie c.d. a forma “libera”[8] (quelle la cui realizzazione, differentemente dal reato in esame, prescinde dalla necessità che la condotta presenti determinati requisiti modali).
Sicché, ancorché addebitabile anche in caso di negligenza, imprudenza o imperizia, il delitto de qua parrebbe configurarsi solamente nell’ipotesi di condotte attive che abbiano cagionato un’epidemia e non anche nel caso di mancata attivazione del soggetto per impedire l’evento del reato.
In conclusione, a mente anche del severo trattamento sanzionatorio riservato alla fattispecie, la tesi preferibile appare senz’altro quella che impone un più rigoroso accertamento sugli elementi costitutivi del reato.
In tal senso, per la sussistenza del reato in esame dovrà anzitutto accertarsi la manifestazione di una patologia eziologicamente connessa alla condotta del soggetto attivo e, in secundis, la verificazione del concreto pericolo che la malattia si propaghi ad un numero potenzialmente illimitato di altri soggetti in ragione della capacità di trasmissione degli agenti patogeni[9].
In assenza di tali requisiti (quando, ad esempio, l’evento dannoso riguardi un numero esiguo di persone, o vi sia una scarsa potenzialità di diffusione dell’agente patogeno) non sarà configurabile il reato di epidemia, ben potendo ricadere nelle meno gravi fattispecie di lesioni e/o omicidio, nelle loro forme dolose o colpose[10].
Non da ultimo, è necessario evidenziare che in sede giudiziale dovrà essere accertato il nesso di causalità tra la verificazione dell’epidemia e la condotta dell’agente: un’operazione che – anche alla luce della scarsa conoscenza del COVID-19 e delle innumerevoli fonti di possibile contagio – parrebbe concretizzarsi in una probatio diabolica.