23 Maggio 2024

Settimana lavorativa corta: un trend sempre più diffuso

SARA TORNATORE

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Lavorare 4 giorni anziché 5 a parità di stipendio? L’idea è già realtà in molte aziende nel mondo. In Islanda i primi programmi di “4-day week” nascevano quasi 10 anni fa, nel 2015; il Belgio a febbraio 2022 votava la prima legge in Europa su questo tema; sempre nel 2022 il Regno Unito stabiliva un record riuscendo a coinvolgere ben 61 organizzazioni in un programma pilota durato sei mesi; in Germania, è notizia di poche settimane fa l’avvio del progetto in 45 imprese.

I risultati sul benessere dei lavoratori e sulla produttività dell’azienda sono sorprendenti, tanto che nel Regno Unito per l’89% delle organizzazioni coinvolte nell’esperimento del 2022 la settimana corta era ancora in vigore a distanza di un anno; il 51% aveva addirittura introdotto il sistema in modo permanente.

Anche in Italia se ne parla da un po’: sono noti gli esempi di Luxottica, Lamborghini e Intesa Sanpaolo. A marzo 2023, il leader 5 Stelle Giuseppe Conte portava in Commissione Lavoro alla Camera una proposta di legge ad hoc. Pochissimi giorni fa invece Confsal (Confederazione generale dei sindacati autonomi dei lavoratori) e Confimi Industria (Confederazione dell’industria manifatturiera italiana e dell’impresa privata) siglavano un contratto collettivo intersettoriale che prevede, tra le altre cose, l’eventuale possibilità di distribuire l’orario di lavoro su quattro giorni.

È evidente insomma che quella della settimana corta non sia più una novità. Quanto però il sistema sia realmente applicabile e auspicabile in ogni tipo di impresa, è tutto da vedere.

 

Diffusione del fenomeno e profilo tipo delle aziende

Ancora una volta, il trend è di origine anglosassone. Secondo 4 Day Week, no-profit che dal 2019 supporta le organizzazioni nella pianificazione e implementazione di programmi di lavoro da 4 giorni, sono gli Stati Uniti a detenere il primo posto in classifica per numero di aziende che hanno adottato la settimana corta, seguiti da Regno Unito e Canada. L’Europa è saltata a bordo con un po’ di ritardo e qualche resistenza in più ma i numeri sono in crescita.

Il fenomeno è abbastanza distribuito tra le varie industry. Com’era prevedibile, sono soprattutto aziende tech a sperimentare questo tipo di iniziativa, insieme a no-profit, agenzie digitali, società specializzate nello sviluppo di giochi o nel recruitment. Non mancano però, seppure in numero ridotto, le organizzazioni che offrono servizi professionali (il 16% nell’esperimento britannico) o le aziende manifatturiere (7%).

A fare la differenza – almeno apparentemente – sono le dimensioni dell’azienda. Ridurre la quantità di ore lavorative richiede infatti una organizzazione di base perfettamente funzionante, con una struttura e un management in grado di reggere il cambiamento e coordinare i team di lavoro nel modo più adeguato senza ripercussioni sugli output. Che il sistema possa funzionare realmente anche in aziende medio-piccole, dove i carichi di lavoro sono per forza di cose distribuiti tra un numero molto inferiore di persone, è oggetto di dibattito.

 

La settimana corta in Italia

In Italia la settimana da 4 giorni lavorativi interessa il 5,9% delle persone. Analizziamo rapidamente il tessuto imprenditoriale del nostro Paese: il 95,13% delle imprese attive in Italia conta meno di 10 addetti, mentre a ricadere nella categoria “grandi imprese” con oltre 250 dipendenti sono solo lo 0,09% (Osservatorio Digitale PMI). Considerando le complessità strutturali che comporta l’introduzione della settimana corta, è davvero pensabile poterla attuare a livello diffuso nel nostro Paese?

Passare da 40 a 32 ore settimanali diventa così un’utopia quando su un numero indefinito di progetti ci sono 10 persone o poco più. Lo scetticismo manifestato da molti imprenditori rispetto al famoso modello “100-80-100” (si lavora per il 100% dello stipendio l’80% delle ore ottenendo il 100% dei risultati) è quindi perfettamente comprensibile.

Non dimentichiamo però la possibilità di optare per una modalità “atipica” di settimana corta. Sono diversi gli esempi:

  • Molte organizzazioni hanno ridotto il numero di giorni lavorativi ma non le ore complessive, portando a 10 le ore giornaliere, senza tagli sullo stipendio. Qui sorge spontanea una domanda: aumentare il carico quotidiano per avere un giorno libero in più può davvero avere ripercussioni positive sul benessere delle persone? Personalmente lo trovo poco sostenibile a lungo andare. Eppure gli italiani si dicono favorevoli a una simile proposta perché in grado di garantire un migliore work-life balance: parliamo del 56% secondo uno studio condotto da ADP su circa 2mila lavoratori italiani;
  • Un altro caso è quello per cui si passa da 5 a 4 giorni mantenendo la consueta giornata lavorativa da 8 ore ma riducendo lo stipendio. Anche qui il riscontro degli italiani sarebbe per una buona percentuale positivo: secondo ADP, il 35% si dice disposto a scendere a compromessi sulla retribuzione pur di avere più tempo per sé. Una scelta più comprensibile, sebbene difficilmente perseguibile laddove lo stipendio sia già di per sé poco competitivo;
  • Ulteriore opzione è lasciare libera scelta ai dipendenti stessi: è il modello di Intesa Sanpaolo che ha proposto, su base volontaria, la possibilità di lavorare quattro giorni a settimana aumentando a 9 le ore giornaliere, a parità di retribuzione;
  • C’è poi chi ha introdotto il modello solo per alcuni ruoli che per loro natura sono più flessibili;
  • E infine ci sono quelle aziende che propongono la 4-day week a settimane alterne. Qui in particolare vediamo esempi anche da organizzazioni di dimensioni modeste. Una fra tutte, Disclosers, agenzia di PR milanese, che da gennaio 2024 dà ai suoi 24 dipendenti l’opportunità di godere di una giornata di riposo in più ogni due settimane a parità di retribuzione.

I benefici di tutto questo? Per l’azienda: maggiore attrattività sul mercato del lavoro, una forza lavoro più stabile e fidelizzata, minori costi e molto altro. Per i lavoratori: più benessere, più produttività e più tempo per la cura della famiglia, con un maggiore equilibrio dei compiti tra uomo e donna.

Un cambiamento troppo drastico? Non è da escludere. E non è da escludere, come visto, che il sistema abbia un impatto non sostenibile per tutte le aziende. Ma questo vuol dire necessariamente che una rimodulazione degli orari di lavoro in chiave ancor più flessibile del semplice “smart working” non sia possibile?

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