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Si tratta, però, di impegnarsi a creare una società ben gestita – per usare le parole dell’economista William D. Nordhaus −, che significa non solo giusta, ma anche efficiente nel generare valore. Il regolatore pubblico è chiamato ad adottare leggi e strumenti per diffondere la sensibilità e partecipazione civica, favorire l’inclusione, regolare i sistemi di approvvigionamento nel rispetto di diritti umani e sociali, risolvere le esternalità negative del mercato, anche ricorrendo a incentivi, misure fiscali o meccanismi di compensazione (reintegrano episodi dannosi con l’apporto di utilità e servizi comparabili o alternativi).
Un segnale positivo viene proprio dall’Italia: dove, l’8 febbraio 2022, il Parlamento ha approvato la riforma dell’art. 9 della Costituzione (che ora “tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni”) e dell’art. 41, per cui l’iniziativa economica privata va bilanciata anche con i valori della salute e dell’ambiente, e anzi a livello legislativo può “essere indirizzata e coordinata a fini sociali e ambientali”.
Anche la comunità finanziaria avverte sempre più la correlazione diretta tra pratiche commerciali sostenibili e valore aziendale. La sostenibilità costituisce ormai un driver fondamentale per ispirare tanto decisioni imprenditoriali, quanto scelte strategiche di investimento.
Investire in business sostenibili
Un investimento sostenibile richiede, però, strategie combinate e attività di screening volte a selezionare gli operatori di mercato a seconda di come davvero rispettino i fattori ESG (Environment, Social, Governance) nella propria performance aziendale, investendo in progetti non profit o tenendo conto dell’impatto generato per una comunità o un territorio (impact investing).
Non pochi sono i fondi di investimento che già oggi individuano solo società target il cui indice di carbon footprint o il tasso di incidenza delle risorse non recuperabili siano coerenti con criteri e limiti predefiniti.
Investire nel pianeta implica anche assicurare approvvigionamenti energetici sempre più sostenibili. L’Unione Europea, in particolare, ha già messo in atto − e anzi accelerato, complice l’attuale assetto geopolitico − un piano di azione comune, c.d. REPowerEU, che prevede di incrementare i livelli produttivi di idrogeno e biometano, ridurre la dipendenza da combustibili fossili nell’industria e nell’edilizia, diffondere le misure di efficientamento energetico e favorire maggiori quote di energie rinnovabili.
Una questione di governance
A monte, però, c’è sempre una questione di governance.
Tanto nelle società quanto nei fondi di investimento sono gli amministratori a prendere decisioni e tradurle in atto. È allora fondamentale che l’assetto organizzativo sia adeguato sia a raccogliere e gestire le sollecitazioni di investimenti sostenibili (istituendo anche funzioni ad hoc, come il c.d. Chief Investment Officer); sia ad interagire con altri stakeholder, incluso quel middle management composto, per lo più, da Millennial già dotati di una innata sensibilità per i valori della sostenibilità.
Le funzioni apicali e il management, nel complesso, dovrebbero impegnarsi, cioè, a definire e implementare strategie, azioni e obiettivi che possano portano alla creazione di valore all’interno e all’esterno dell’azienda, anche tenendo conto dell’impatto, positivo o negativo, che ogni attività d’impresa può generare.
In questo esercizio, si dovrebbero sempre esaminare le criticità che impediscono, o frenano, l’attuazione dei fattori ESG (il Sustainability Accounting Standards Board-SASB le ha identificate in ben 77 settori). Così, ad esempio, nella vendita al dettaglio e nella grande distribuzione, seppur ad un diverso livello di materialità, emergono temi quali l’emissione di gas serra, la gestione dell'energia, le pratiche di lavoro eque e il green marketing.
Gli investitori e gli stakeholder “attivi”
Al contempo, però, è necessario un maggiore attivismo ESG da parte degli investitori.
Certo è che, se le informazioni sono di scarsa qualità, disomogenee fra loro, e poco funzionali, è ben difficile che possano orientare i comportamenti degli investitori.
Ancor peggio, le corrette dinamiche informative sono alterate dai casi di greenwashing: anche un bilancio sociale o di sostenibilità, per quanto apprezzabile, può ridursi ad una operazione di marketing senza sostanza.
Azionisti, obbligazionisti, investitori o risparmiatori possono essere davvero coinvolti e messi nelle condizioni di “attivarsi” per l’integrazione dei valori ESG solo se, all’origine, le performance di una società sono state misurate e riportate con criteri rappresentativi e uniformi.
Un passo in avanti, a livello europeo, si è avuto con il Regolamento Tassonomia (Regolamento UE 2020/852) nonché con la direttiva sulla comunicazione di informazioni di carattere non finanziario (direttiva 2014/95/UE, NFRD).
Recente è la proposta di estendere gli obblighi di reporting di sostenibilità tutte le società quotate e big companies che, in Europa, raggiungono oltre 49.000 realtà. Ma, evidentemente, nemmeno questo intervento è avvertito come adeguato, se è già in atto una consultazione per estendere tale obbligo anche alle PMI.
La transizione ecologico-energetica è ormai avviata: ora, si tratta di tradurre in realtà quella che, poco tempo fa, era solo filosofia