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Con gli acronimi ho avuto nella mia vita un rapporto non sempre facile: nelle prime esperienze di lavoro nelle multinazionali mi sembrava di essere capitata su un pianeta sconosciuto, dove si parlava un gergo per iniziati costellato di sigle dai significati oscuri (e il più delle volte impossibili da ricordare).
L’ultimo entrato a far parte della mia esistenza mi sembra però rimarchevole per molti aspetti.
La definizione
ESG suona bene, è breve (alcuni acronimi sono – incredibilmente – lunghi come una domenica di pioggia), ha alta densità di significato. E’ sexy, insomma, e inizia anche a diventare di moda, tipo i meme che girano sui social o le influencer. Devo dire che un po’ sono contenta che stia diventando “mainstream”, come dicono i giovani e i social media manager, perché mi sembrava francamente ingiusto che di queste cose si parlasse (a livello di imprese) solo nelle multinazionali che martellano i loro collaboratori perché siano “social responsible” e si impegnino nel volontariato, spendono soldi in comunicazione per dire a tutti quanto sono attenti all’ambiente e alla società e poi sono accusate – ovviamente – di volersi solo rifare l’immagine. Cosa che mi sono sentita dire dal lontano 1997, quando iniziai a entusiasmarmi per tutte le fantastiche iniziative e politiche che aveva la mia azienda (multinazionale americana dell’abbigliamento) e andavo in giro a raccontarle pensando di raccogliere ammirata approvazione (che ingenua).
Ma tornando alle definizioni, ESG ormai è stato sdoganato e mi pare di poter dire con ragionevole certezza che ha soppiantato le numerose e contorte espressioni che andavano a indicare:
- l’attenzione all’ambiente in tutte le sue forme e declinazioni (Environment)
- la convinzione, tradotta possibilmente in azioni, che le persone vadano trattate con equità ed etica, dentro e fuori la propria struttura (Social)
- la capacità di gestire i processi e l’organizzazione con trasparenza (Governance);
il tutto con una bella spruzzata di “quanto siamo bravi e buoni” che ci porta diretti nel boschetto con gli unicorni rosa.
Unicorni rosa o bieco realismo?
Un po’ cinico? Non ditelo alla me del 1997! Forse si, lo è, ma è inutile negare che il rischio di trasformare giusti, e assolutamente necessari, cambiamenti e atteggiamenti in un paio di occhiali rosa a forma di cuore esiste e fa la gioia di chi, appunto, nel cinismo ci sguazza, spesso per evitare di sembrare ingenuo (o idealista, che per molti è la stessa cosa).
Ed eccole qui, alcune delle obiezioni del cliente/consumatore cinico:
- Premio Ipocrisia: si fanno belli con il bilancio di sostenibilità, finanziano i progetti di salvaguardia del Tritone alpino, ma la mia amica l’hanno lasciata a casa dopo 3 anni/producono all’estero dove possono inquinare/lo sanno tutti che evadono le tasse e via così. In effetti alcune obiezioni c’entrano come il mitologico cavolo a merenda, ma tant’è, la parte vale per il tutto (se hanno licenziato la mia amica, vorrai mica credere che si preoccuano del povero Tritone - che è pure brutto! - o che rispettino le leggi etc etc)
- Premio Lo so io perché: vogliono farti credere di essere puri come angeli (o come unicorni nel boschetto), guidati da profondi valori etici e da convinzioni solide come la roccia sull’impegno di tutti per migliorare la società. Ma ti svelo un segreto. Vogliono solo che comperi i loro biscotti/assuma i loro consulenti etc etc. Ma dai??
- Premio Su de doss ovvero a ognuno il suo: a me non interessa se aiutano il solito Tritone o finanziano le imprese sociali/onlus, non è compito loro: le aziende devono fare le aziende, a me interessa solo che i loro prodotti siano migliori degli altri
- Premio Il mio premio è sapere che sono nel giusto, i riconoscimenti non mi interessano (tendenza femminile da combattere ferocemente, peraltro): il bene si fa, ma non si dice, se salvi il Tritone devi solo essere felice di averlo fatto e godere della tua sensibilità e attenzione all’ecosistema. In effetti forse è una variante del Lo so io perché: brutti e cattivi, non solo fanno il bene e lo sbandierano senza pudore, ma vogliono pure starti simpatici per questo!
Arrivata quindi a un’età in cui bisogna almeno provarci, a sembrare meno ingenua, ma non troppo cinica che fa venire le rughe, mi sono fatta persuasa di alcuni punti.
Certo, non viviamo in un modo perfetto e gli unicorni non esistono; certo, le aziende puntano soprattutto a fare un profitto e quindi a farci comprare i loro biscotti e ahimè, addirittura esiste anche la possibilità che alcune siano irrimediabilmente ipocrite, del tutto o in parte, e cerchino quindi di migliorarsi l’immagine senza che ci sia uno straccio di convinzione dietro. Ma anche così non riesco a capire perché questo dovrebbe rendere meno utile il fatto che io, come consumatore, possa cercare di avere, tra i miei criteri di scelta davanti ai biscotti, anche degli elementi che riguardano come quell’azienda si pone nei confronti dell’ambiente, dei suoi lavoratori, dei suoi clienti e della società in cui opera. Io voglio avere la possibilità di esercitare una pressione, per quanto insignificante possa sembrare, garantendo una migliore performance a quelle aziende che almeno ci provano, ad essere eticamente sostenibili. Di sicuro fare il consumatore responsabile è un lavoro a tempo pieno e, sempre nel mondo degli unicorni, bisognerebbe cercare anche di avere qualche informazione, per capire se davvero quell’azienda agisce con coerenza in modo etico oppure no, ma ammettiamolo, non tutti abbiamo sempre tempo e voglia di farlo. Resta il fatto però che non possiamo lamentarci sempre di come vanno le cose se poi non proviamo nemmeno a premiare chi sembra provarci, a farle meglio. Magari sperando che la prossima volta l’amica di qualcun altro sia trattata correttamente, anche grazie a me.
Insomma, pur con tutte le prudenze del caso e la consapevolezza che probabilmente qualche fregatura la prenderemo, io voto per il tentativo (imperfetto) di spingere nella direzione giusta. In attesa naturalmente che si trovi un modo migliore o che arrivino gli unicorni.