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La burocrazia è stata inventata quando si avvertiva diffusamente la necessità di controllare con esattezza le dinamiche di un mondo che appariva complicato. Si badi bene, complicato, ovvero difficile da comprendere a prima vista ma, a valle delle opportune analisi, del tutto privo di segreti e opacità. Nel mondo complicato, una volta stabilita la causa è possibile prevedere l’effetto, immancabilmente. È il mondo delle macchine e degli automatismi, delle procedure e dei regolamenti; è il paradiso dell’intelligenza astratta, che sminuzza i problemi più articolati per poterli maneggiare meglio. È a quel mondo che si riferisce tutt’oggi la cultura manageriale, la quale si fonda sulla convinzione che il principale compito di chi dirige un’organizzazione consista nel verificare la corrispondenza tra le istruzioni assegnate e le azioni compiute. Nel mondo complicato si fanno soldi attraverso l’industrializzazione dei processi e la standardizzazione delle merci, prodotti o servizi che siano. Ma il mondo si è fatto complesso, ovvero dominato dalla imprevedibilità. Nei sistemi complessi, il caso gioca un ruolo decisivo, le concatenazioni causa-effetto si moltiplicano sino a sottrarsi alla percezione umana. In questo mondo, il burocrate finisce per risultare ingombrante, perché le norme cui fa riferimento invecchiano subito dopo essere state definite.
L’Occidente è diventato ricco grazie all’applicazione ubiqua di un apparato burocratico che si è rivelato capace di governare le più parte delle complicazioni, ma oggi rischia d’impoverirsi perché fatica a riconosce gli strumenti adatti a fronteggiare la complessità. Come scrive nel suo ultimo libro Mauro Ceruti, che in Italia è forse la persona che maggiormente se ne intende, viviamo il tempo della complessità - e siamo sprovvisti di ombrello. Per questa ragione è stata inventata la parola zainocrazia: perché le organizzazioni (d’impresa, pubbliche, educative) hanno urgente bisogno di configurare una nuova cassetta degli attrezzi, più attenta ai fenomeni che inaspettatamente emergono dagli ambiti apparentemente più caotici. L’organizzazione che intende porre la complessità al servizio dei propri scopi è più sollecita nei confronti delle eccezioni che delle norme e cerca di muoversi di continuo tra i saperi e tra le discipline consolidate. Per questo ha bisogno di uno zaino.
All’immagine di sapore fortemente kafkiano del macrosistema dominato dalla logica organizzativa tradizionale (command & control), si sostituiscono le scivolose seduzioni dell’ineffabile, un presque rien che si trasforma in elemento decisivo e diviene il fattore critico di successo delle imprese complesse. Le aziende sono sulle tracce di professionisti della complessità, persone mobili e sburocratizzate, che meglio di altre sanno leggere i segnali deboli del mercato e riconoscere prima degli altri i pattern che ne riconfigurano il profilo. Nel libro Zainocrazia. Teoria e pratica di un futuro preferibile si propone una interpretazione dell’organizzazione complessa fondata sui casi, sempre più numerosi, di sperimentazione felice di questo nuovo paradigma. Resta da scrivere un capitolo importante, di stretta attinenza legale, la cui rilevanza possiamo qui cercare di evocare.
Nell’impresa moderna, l’organizzazione del lavoro si fonda sulla valorizzazione dell’individuo. Le singole persone, una volta conclusa quella traiettoria formativa rigorosamente individuale che dà corpo al curriculum studiorum, vengono singolarmente selezionate, assunte, valutate e compensate. Una per una. Dopo i primi anni di frequentazione del mondo del lavoro, ciascuno acquisisce un curriculum vitae, il lasciapassare per la carriera dell’io. La giustapposizione di singolarità eccellenti determina il successo dell’esperto, qualcuno che sa compiutamente dominare il proprio campo e che, più che un sapere esteso, possiede un puntualissimo saper fare (know how). L’esperto è la risposta giusta al mondo complicato: ha esperienza, studia, conosce sempre meglio e approfondisce sempre più; nell’ambito circoscritto di propria competenza, l’esperto è imbattibile. Ma cosa accade se i problemi non sono affatto circoscritti? Quando si passa dal complicato al complesso un solo esperto non basta, ce ne vogliono diversi e spesso ce ne vogliono moltissimi. Più gli esperti sono tali, più l’affidabilità di ciascuno di essi è limitata. Al contrario, i problemi complessi sono fortemente integrati tra loro, superano gli argini delle competenze tradizionali, sfondano i muri delle esperienze verticali. La complessità esonda e travolge gli esperti. A meno che gli esperti non comincino a parlarsi tra loro, per provare a comporre un punto di vista collettivo, anziché una semplice giustapposizione di sguardi differenti. Ma, come sappiamo bene, il dialogo tra vocabolari disciplinari si è fatto difficilissimo. Non ci s’intende più, nemmeno tra colleghi che teoricamente dovrebbero risultare accomunati dalla medesima radice professionale. Accanto agli esperti compaiono quindi i traduttori, persone che hanno fatto del proprio io un noi, che frequentano i confini tra i saperi, dove si annida l’innovazione, anziché accomodarsi nei territori centrali delle discipline. La imprese che non riescono più a fare soldi con la standardizzazione produttiva hanno un drammatico bisogno di traduttori, che aiutino i decisori a muoversi con l’opportuna cautela tra i molti specialisti che circolano in azienda. Ed ecco il problema, così solleticante per un manager, un avvocato e un legislatore: come si possono selezionare, valutare, compensare singolarmente le prestazioni professionali di persone che fanno tanto meglio il proprio mestiere quanto meno dicono io? Di quali organigrammi, norme, leggi abbiamo bisogno per favorire questo ineluttabile passaggio dal complicato al complesso, e rendere quindi le nostre organizzazioni più competitive di quanto siano oggi? Come avrebbe detto Stanley Kubrick, non ho risposte semplici, ma qualche spunto interessante forse sì.