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È di interesse il tema relativo alla responsabilità per il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale in capo all’ “estraneus” costituito dal professionista, commercialista, avvocato o anche semplice consulente del fallito, che fornisca a quest’ultimo quale “intraneus” un apporto causale rilevante nella condotta idonea a determinare il depauperamento del patrimonio sociale ai danni dei creditori.
Naturalmente la condotta dell' “estraneus” dovrà essere connotata altresì dal dato costituito dalla volontarietà e dalla consapevolezza del suddetto evento prodotto .
La questione così posta attiene alla attività svolta dal professionista a favore dell’assistito che, proprietario o amministratore di una società in dissesto, matura l’intendimento di riservare per sé delle risorse al contrario destinate a soddisfare la garanzia creditoria.
Il concorso del professionista alla realizzazione dell’altrui progetto delittuoso si consuma con una condotta che potremmo definire “aperta” , cioè non necessariamente definita o codificata.
Comunemente si sostanzia nel prestare consigli o suggerimenti sui mezzi giuridici idonei a sottrarre i beni ai creditori e/o nell’assistenza alla conclusione dei relativi negozi ma anche più genericamente in qualsiasi attività diretta a garantire l’impunità o a rafforzare con il proprio ausilio e con le proprie preventive assicurazioni l’intendimento illecito dell’assistito.
La questione di cui alla valutazione del contributo causale del suddetto professionista ai fatti di bancarotta si risolve agevolmente applicando le comuni regole stabilite dalle norme in materia di concorso di persone nel reato, in particolare quanto all’aspetto del concorso materiale.
Vale la pena osservare, secondo il consolidato orientamento della Suprema Corte, che una volta posta in essere la condotta “de quo” non potrà essere invocata a discolpa la asserita inesistenza causale tra uno o più fatti di distrazione ed il successivo fallimento. Ciò che infatti rileva è che sia stato cagionato il depauperamento dell’impresa, destinando le risorse della stessa ad impieghi estranei all’attività sociale.
Ne potrà eccepirsi la mancata consapevolezza o finanche l’inesistenza dello stato di insolvenza della società all’epoca della consumazione della distrazione.
È noto infatti che il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione è un reato di pericolo concreto laddove è sufficiente che l’atto distrattivo sia idoneo ad esporre a pericolo l’entità del patrimonio della società in relazione alla massa creditoria e deve permanere tale sino all’epoca che precede l’apertura della procedura fallimentare.
A completamento del tema va rilevato che i fatti di distrazione una volta intervenuta la dichiarazione di fallimento assumono rilievo in qualsiasi momento siano stati commessi e quindi anche se la condotta si è realizzata quando ancora l’impresa non versava in condizioni di insolvenza.
In ordine alla prova circa la volontà e la consapevolezza del carattere distrattivo della condotta, nell’accezione sopra descritta, in capo al professionista, è stato sostenuto che in ragione della propria competenza professionale appartenendo ad esempio al ceto forense, al predetto non potrà senz’altro essere sfuggito l’effetto del depauperamento del patrimonio sociale ai danni dei creditori .
Infine non risulterà agevole invocare, quale estrema ratio, la sussistenza di una fattispecie delittuosa quant’anche meno grave, cioè la configurabilità del reato di bancarotta preferenziale assumendo che la asserita distrazione avrebbe come fine il pagamento di un debito pregresso in capo alla società. Infatti non va omesso di considerare che incombe in capo al fallito e al concorrente professionista l’onere di fornire la prova che trattasi di un pagamento finalizzato all’estinzione di un debito effettivo. In difetto di ciò ricorrerebbe un’ipotesi di distrazione dei beni della società e non di diseguale trattamento dei creditori.
Tanto rilevato, per così dire in punto di rilevi generali sul tema, si segnala una recente pronuncia della Suprema Corte, sezione quinta penale, numero 40323 del 25 ottobre 2022 la quale con una motivazione articolata ed esplicativa prende in esame il caso ove il consulente professionista ha elaborato una sorta di programma per la vendita simulata degli immobili di proprietà di un imprenditore quale socio accomandatario di una Sas dichiarata fallita.
L’argomento utilizzato dal difensore per confutare la tesi della responsabilità per il reato di bancarotta distrattiva è stato quello di sostenere che il negozio simulato è una fattispecie prevista dall’ordinamento e dunque l’utilizzo di tale forma contrattuale non conduce necessariamente alla sussistenza della sopra prospettata fattispecie criminosa.
In realtà la presenza di molteplici ed incontrovertibili circostanze tra cui, in sintesi, l’intestazione fiduciaria degli immobili a prestanome compensati per l’occasione anche attraverso l’intervento di società estere ed infine, soprattutto, atteso che i predetti beni non sono mai usciti dalla sfera di controllo del fallito ma solo dalla formale titolarità di quest’ultimo, tutto ciò conduce a ritenere perfezionato il reato di cui si narra. Quindi è stata acclarata la condotta del fallito, istigato e/o agevolato dal professionista di fiducia che lo ha assistito nella operazione, il quale mediante contratti simulati ha fatto apparire come non più suoi beni che continuano ad appartenegli in modo da celare una situazione giuridica la quale consentirebbe di assoggettare detti beni alla azione esecutiva concorsuale.
Dunque, illustri colleghi, non rimane che tenere gli occhi ben aperti e la schiena ben dritta!