31 Marzo 2020

Centri commerciali e concessione in uso del punto vendita: quale sarà la disciplina applicabile?

MARCO CRISTIANO PETRASSI

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Abstract

Con la sentenza n. 3888 del 17 febbraio 2020, la Cassazione torna sul tema delle unità immobiliari concesse in uso nei centri commerciali e rigetta la possibilità che, per la cessione di tali spazi, sia coerente lo schema negoziale dell’affitto di azienda.

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La Suprema Corte rileva infatti che, presupposto per l’applicazione della disciplina della cessione d’azienda, è la esistenza di un complesso di beni organizzati per l’esercizio di un’attività di impresa.

L’”organizzazione” è – secondo la Corte – un elemento decisivo; pertanto, ove vi sia, sì, cessione di un complesso di beni, ma i beni ceduti siano privi di un preesistente legame organizzativo, la fattispecie non potrà essere considerata quale cessione di azienda.

Affermato tale principio la Suprema Corte è giunta alla conclusione che nel caso dei centri commerciali – in cui le unità immobiliari sono cedute (insieme alle relative pertinenze) ai singoli esercenti per lo svolgimento delle loro attività – non ricorra un caso di affitto di azienda, ma piuttosto di locazione commerciale.

La decisione appare corretta dal punto di vista logico.

Anche con riferimento alla qualificazione della cessione delle unità immobiliari nei centri commerciali è difficile ipotizzare una conclusione diversa.

È nota, infatti, la prassi del ricorso allo schema dell’affitto di azienda per i negozi dei centri commerciali; tuttavia, è altrettanto diffuso l’imbarazzo del giurista pratico nel momento dell’identificazione del perimetro dell’azienda, del complesso di beni e dell’elemento organizzativo (che dovrebbe dotare quasi di un’anima quel perimetro).

Talvolta, si ricorre a costruire rami aziendali valorizzando elementi che, solo (molto) in astratto, possono essere considerati beni a sé stanti rispetto all’unità immobiliare: cosicché, si affittano rami costituiti dall’immobile, dagli impianti di riscaldamento o refrigeramento (sic!), dalle vetrine e dal diritto al subentro nelle autorizzazioni amministrative.

Forse, l’errore è, sul piano della tecnica contrattuale, non valorizzare adeguatamente l’attività imprenditoriale dei centri commerciali.

Questi ultimi sono infatti organizzati in modo tale da rendere particolarmente attrattiva la location ed offrono agli esercenti, oltre che la manutenzione e pulizia degli spazi, anche servizi di marketing e di pubblicità generale. I singoli esercenti sono, a loro volta, tenuti a rispettare orari di apertura e, talvolta, ad adeguarsi a determinate politiche di prezzo (per i c.d. outlet).

Sono questi gli elementi che possono rendere riconoscibile una (seppur debole) organizzazione del complesso di beni ceduti.

Si tratta, però, di un’operazione ermeneutica sottile, il cui successo è tutto da verificare.

Sarà allora interessante osservare come la prassi si orienterà di fronte alla recente presa di posizione esplicita da parte della Cassazione.

La prima impressione è che, nonostante gli sforzi di ingegneria contrattuale, sarà difficile continuare ad utilizzare lo schema negoziale della cessione di azienda, a meno che le parti non siano capaci di identificare un ramo aziendale effettivamente già organizzato al momento della cessione.

Tuttavia, non è neanche assolutamente scontato che la concessione in uso delle unità negoziali debba trovare tutela giuridica nella locazione commerciale.

Lo schema della locazione mal si presta, infatti, a recepire alcuni elementi caratteristici della concessione in godimento degli immobili nei centri commerciali.

Come si è già evidenziato poco sopra, del resto, le società che gestiscono i centri commerciali svolgono anche, a beneficio degli esercenti, campagne promozionali; agli esercenti è inoltre spesso richiesto il rispetto di determinati orari di apertura ordinati o straordinari (notti bianche o eventi stagionali); in alcuni casi, è imposta agli esercenti l’adesione a determinate politiche commerciali, quali “prezzi outlet” o altre scontistiche.

Il gestore del centro commerciale, quindi, da un lato svolge servizi commerciali ulteriori a quelli tipici di un condominio, dall’altro si ingerisce nella stessa gestione dell’azienda dell’esercente.

Se ciò non è ritenuto sufficiente per intravedere quell’elemento organizzativo essenziale per la cessione d’azienda, può però essere utile per inquadrare il rapporto tra gestore ed esercente tra i contratti di collaborazione tra imprese.

La collaborazione consiste nella messa a disposizione, da parte del gestore, di spazi ed alcuni servizi commerciali; l’azienda esercente, da parte sua, versa un corrispettivo in parte fisso ed in parte variabile (perché ancorato al fatturato generato) e si impegna, a propria volta, a tenere determinati comportamenti (rispetto di orari e politiche di prezzo, manutenzione ordinaria dei locali, etc.).

La circostanza che un elemento importante della collaborazione sia la concessione in godimento di un immobile non sembra attrarre necessariamente il contratto nell’area della locazione.

L’ordinamento, infatti, conosce già forme contrattuali tipiche in cui l’elemento collaborativo di una delle parti consiste, in tutto o in parte, nella messa a disposizione di un immobile.

Si pensi, per esempio, al contratto di associazione in partecipazione in cui è consentito, all’associato, di recare, come apporto, il godimento di un immobile. Ugualmente, nel contratto di franchising accade talvolta che il franchisor conceda al franchisee anche la location dove svolgere l’attività imprenditoriale.

Vi è dunque spazio, nel nostro ordinamento, per forme di detenzione e godimento dell’immobile, atipiche rispetto allo schema locatizio.

L’esatta riconduzione dell’uso del punto vendita allo schema del contratto di servizi consentirà alle parti di beneficiare di maggiore flessibilità rispetto alla disciplina della legge 392/1978.

È noto, infatti, che questa vincola in modo rigido le parti con riferimento alla durata minima del rapporto ed indennità di avviamento dovute alla cessazione del rapporto.

Tuttavia, nell’attesa di una sua profonda riforma, è sicuramente da evitare un’applicazione indiscriminata e disattenta rispetto alla funzione economico-sociale perseguita dalle parti con il singolo rapporto.

 

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