***
Questione
L’oggetto della questione attiene alla determinazione dei criteri da applicare nella valutazione delle caratteristiche di pericolo presentate da rifiuti ai quali possono essere assegnati codici speculari ed è riassunta nei quesiti formulati alla Corte di Giustizia:
- necessità o meno per il produttore, in presenza di rifiuti con codici speculari di cui non è nota la composizione, della caratterizzazione e, se si, in quali eventuali limiti;
- subordinazione della ricerca delle sostanze pericolosa a metodiche uniforme predeterminate;
- laddove la composizione del rifiuto è nota o individuata in fase di caratterizzazione, necessità di verifica accurata e rappresentativa che tenga conto della composizione del rifiuto o verifica secondo criteri probabilistici delle sostanze ragionevolmente presenti nel rifiuto;
- in caso di dubbio o di impossibilità di certa individuazione della presenza o meno di sostanze pericolose nel rifiuto, necessità di classificazione comunque come rifiuto pericoloso in applicazione del principio di precauzione.
La tematica si è riproposta nell’ambito di un procedimento penale a carico dei soggetti gestori della discarica ricevente i rifiuti, dei responsabili delle società conferenti e dei professionisti e laboratori di analisi in relazione all’ipotesi di reato di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti.
La tesi posta a fondamento del costrutto accusatorio era quella della qualificazione dei rifiuti gestiti dagli indagati come non pericolosi effettuata in “forza di analisi quantitative e qualitative non esaustive” fornite da alcuni laboratori “con la consapevolezza della loro parzialità”.
In sede di impugnazione dei diversi provvedimenti costitutivi di misure cautelari reali a carico degli impianti, il Tribunale del Riesame disponeva con ordinanze distinte l’annullamento delle misure sul presupposto del difetto di gravi indizi affermando che “l’analisi del rifiuto con codici a specchio, al fine di determinarne la pericolosità, deve riguardare solo le sostanze che in base al processo produttivo è possibile possano conferire al rifiuto stesso caratteristiche di pericolo”.
Il PM proponeva pertanto ricorso in Cassazione avverso i predetti provvedimenti di annullamento.
Quadro normativo
Prima di affrontare la soluzione giurisprudenziale offerta, pare utile riportare sinteticamente e senza pretesa di esaustività le principali norme la cui interpretazione é oggetto di discussione.
La classificazione dei rifiuti, infatti, è disciplinata dall’art. 184 d.lgs. n. 152/06 il quale originariamente prevedeva l’istituzione di un elenco dei rifiuti tramite decreto ministeriale e nel frattempo disponeva l’applicazione delle disposizioni della Direttiva del Ministro dell’ambiente del 9/04/2002 riportata all’Allegato D della parte IV del d.lgs. n. 152/06.
Tale norma ha subito nel tempo diverse modifiche a partire dal d.lgs. n. 205/2010 di attuazione della Direttiva 2008/98/ CE del Parlamento europeo il quale interveniva da un lato, sui commi 4 e 5, individuando i rifiuti pericolosi come quelli recanti le caratteristiche di cui all’Allegato I della Parte IV del d.lgs. n. 152/06 e chiarendo che l’elenco dei rifiuti di cui all’Allegato D includeva i rifiuti pericolosi e “teneva conto dell’origine e della composizione dei rifiuti e, ove necessari o dei valori limite di concentrazione delle sostanze pericolose”, dall’altro modificando l’allegato D citato.
Successivamente, per effetto del d.l. 28/01/12 n. 2 convertito con modifiche dalla l. 24/03/2012 n. 28, veniva modificato il punto 5 dell’Allegato D disponendo in sintesi che la classificazione di un rifiuto come pericoloso, laddove vi sia il riferimento specifico o generico a sostanze pericolose, richiede il raggiungimento di determinate concentrazioni di dette sostanze tali da conferire al rifiuto le caratteristiche di pericolo di cui all’Allegato I citato.
Con legge 11/08/2014 n. 116 di conversione con modificazioni del decreto legge 24/06/2014 n. 91 veniva nuovamente modificato l’Allegato D introducendo in sintesi una premessa secondo la quale ferma la considerazione che la classificazione dei rifiuti è operata dal produttore, se il rifiuto è classificato pericoloso o non pericoloso “assoluto” esso è tale senza ulteriore specificazione mentre se è classificato con codice speculare occorre determinare le proprietà di pericolo possedute mediante l’individuazione dei composti presenti (mediante scheda informativa produttore, conoscenza processo chimico, campionamento e analisi); la determinazione dei pericoli connessi (mediante la normativa europea sull’etichettatura delle sostanze pericolose, le fonti informative europee ed internazionali e la scheda di sicurezza dei prodotti a cui deriva il rifiuto); la determinazione delle caratteristiche di pericolo delle concentrazioni dei composti contenuti. La Legge precisa che in caso di rilevamento dei componenti del rifiuto in modo aspecifico, per l’individuazione delle caratteristiche di pericolo occorre fare riferimento ai composti peggiori mentre allorché non sono note il rifiuto va classificato come pericoloso.
Nel frattempo, sono divenuti applicabili il 1° giugno 2015, il Regolamento (UE) n. 1357/2014 e la Decisione della Commissione 2014/955/UE. Il contenuto di tali provvedimenti comunitari ha posto un problema in ordine alla sopravvenuta incompatibilità di quanto introdotto con la legge di conversione n. 116/2014.
L’Allegato D è stato quindi modificato con decreto legge 20/06/2017, in vigore dal giorno successivo, che sostituisce quanto previsto ai punti da 1 a 7 delle premesse con il seguente “1. La classificazione dei rifiuti è effettuata dal produttore assegnando ad essi il competente codice CER ed applicando le disposizioni contenute nella decisione 2014/955/Ue e nel Regolamento (UE) n. 1357/2014 della Commissione, del 18 dicembre 2014”.
Soluzione giurisprudenziale
Sintetizzato il contesto normativo di riferimento, la risposta offerta dalla Cassazione Penale con la pronuncia del 21.11.19 n. 47288 è stata quella di annullamento delle ordinanze emesse dal Tribunale del Riesame con un rinvio per un nuovo esame in merito alla tematica se la classificazione dei rifiuti sia stata correttamente effettuata ovvero se la stessa sia conseguenza di un deliberato ricorso a procedure non adeguate propedeutiche all’illecito smaltimento.
Secondo la Cassazione, infatti, se va esclusa la “presunzione di pericolosità” comportante l’obbligo a carico del detentore del rifiuto di dimostrarne analiticamente la non pericolosità pena la classificazione come rifiuto pericoloso, è vero che resta onere del “detentore” -allorché la composizione del rifiuto non sia immediatamente nota –raccogliere le informazioni idonee a consentirgli di acquisire una conoscenza sufficiente di detta composizione attribuendo di conseguenza il codice appropriato.
Alcuna discrezionalità, nella natura dell’accertamento, residua in capo al detentore dovendo questi seguire la precisa metodologia specificata dalla Corte di Giustizia che non si riduce esclusivamente all’indagine chimico-analitica.
Ne consegue, secondo la Corte di Cassazione, che ai fini di una “conoscenza sufficiente” della composizione del rifiuto non basterebbe guardare “solo le sostanze che, in base al processo produttivo, è possibile possano conferire al rifiuto stesso caratteristiche di pericolo”.
E tuttavia l’adozione del concetto di conoscenza sufficiente del rifiuto, potrebbe rivelarsi ancora una volta suscettibile di interpretazioni non univoche.
La Cassazione, alla stregua di quanto affermato dalla Corte di Lussemburgo, infatti, sembra offrire solo i confini esterni di detta “conoscenza”: non deve essere funzionale a verificare l’assenza di qualsiasi sostanza pericolosa ma soltanto di quelle che possano ragionevolmente trovarvisi. D’altra parte le sostanze che possono “ragionevolmente” essere presenti non sono quelle potenzialmente presenti “in base al ciclo produttivo”. Se è vero, infatti, che viene esplicitata la metodologia attraverso la quale acquisire il risultato conoscitivo auspicato è vero altrettanto che vi sono tipologie di rifiuti per le quali, ad esempio, l’acquisizione delle informazioni sul processo chimico o di fabbricazione che generano i rifiuti, è impossibile.
Altro aspetto di non poca importanza è il costante riferimento, nell’individuazione del soggetto destinatario dell’onere di una conoscenza sufficiente del rifiuto, al “detentore” e non solo al produttore sul quale spetta per legge l’obbligo della caratterizzazione.
Si tratta quelle evidenziate di “soluzioni interpretative” che attendono, come anticipato, di superare il banco di prova dell’esperienza concreta, prova il cui esito positivo decreterebbe il superamento del lungo dibattito sul tema.