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I fatti oggetto del giudizio
Con la sentenza n. 25519 del 4/07/2022 la sezione II Corte di Cassazione conferma la statuizione di condanna pronunciata a carico di una pluralità di imputati, ritenuti responsabili, all’esito dei giudizi di merito celebratisi, in primo grado, innanzi al Tribunale di Messina e, nel successivo giudizio d’appello, al cospetto della Corte territoriale del medesimo capoluogo siciliano, della commissione di una molteplicità di fatti di reato tra cui, per quanto d’interesse nella presente sede, il delitto di tentata estorsione aggravata dal ricorso al metodo mafioso.
La vicenda trae origine dalla condotta posta in essere da una coppia di coniugi che, agendo in violazione delle prescrizioni impartite dal legislatore in materia di procedimento di adozione di un soggetto minorenne, aveva stipulato un accordo con altre persone, avente ad oggetto la corresponsione, frazionata nel tempo, della somma di denaro di trentamila euro, in cambio della quale veniva promessa la consegna di un minore che, in tal modo, sarebbe stato sottratto al nucleo familiare di origine.
Malgrado il cospicuo corrispettivo versato, non si addiveniva alla consegna del minore alla coppia, dal momento che la madre riusciva a fuggire portandolo con sé e, pertanto, nell’intento di ottenere la restituzione della somma erogata, i coniugi si attivavano, sollecitando altresì l’intervento di terzi, rivolgendo delle minacce a coloro a cui era stato versato il denaro, prospettando il verificarsi di conseguenze pregiudizievoli qualora non avessero provveduto a restituirlo; al fine di esercitare una pressione psicologica più intensa il comportamento minatorio veniva rinforzato dall’esternazione, palesata presso gli interlocutori, della sussistenza di legami con soggetti facente parte di consorterie criminali di natura mafiosa.
I delitti di estorsione ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni con minaccia alle persone: profili comuni ed elementi differenziali
Nel confutare le argomentazioni sollevate dalle difese dei ricorrenti, volte altresì, quantomeno in via subordinata, a ricondurre tali condotte al differente, e meno grave, reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni mediante minaccia alle persone, la pronuncia della Cassazione offre degli spunti utili per individuare i presupposti applicativi della fattispecie estorsiva e, al contempo, per tracciare le differenze con la predetta figura delittuosa dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni.
In via preliminare, appare utile rilevare che le predette figure di reato si connotino, per un verso, per la presenza di talune componenti comuni e, per altro verso, per la sussistenza di alcuni elementi differenziali.
Ai fini della sussistenza del delitto di estorsione, previsto dall’art. 629 c.p., si richiede che il soggetto ponga in essere una condotta violenta o minacciosa mediante cui costringe taluno a realizzare o ad omettere la realizzazione di un determinato comportamento, da cui discende il conseguimento di un indebito profitto con correlato altrui danno.
Si pensi, a titolo d’esempio, alla condotta di colui che minacci un soggetto, intenzionato ad aprire un ristorante in un determinato quartiere cittadino, intimandogli di desistere dal predetto proposito, pena il verificarsi di conseguenze negative quale, ad esempio, l’incendio dei locali.
La configurabilità di tale reato implica, pertanto, che la condotta dell’agente sia connotata dal perseguimento di una finalità ingiusta, nella consapevolezza che il profitto che si mira ad ottenere sia di natura indebita e, al tempo stesso, che il pregiudizio patito dalla vittima si ponga in contrasto con l’ordinamento.
Viceversa, nell’incriminare la condotta di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone, disciplinata dall’art. 393 c.p., qualificabile come ipotesi di giustizia-fai da te, l’ordinamento sanziona il comportamento del soggetto che, malgrado sia titolare di un diritto o, quantomeno, nutra la convinzione di vantarne la titolarità, anziché rivolgersi all’Autorità giudiziaria, opti per farsi ragione da sé, ad esempio minacciando la controparte contrattuale, che non abbia adempiuto alla relativa prestazione, di infliggergli delle conseguenze pregiudizievoli in caso di protrazione del contegno inadempiente.
Presupposto indefettibile di tale figura di reato, che consente di differenziarla dall’estorsione, è per l’appunto la titolarità, effettiva o quantomeno vantata – salvo il caso del soggetto che vanti una pretesa macroscopicamente illegittima – di un diritto tutelabile mediante gli strumenti che l’ordinamento mette a disposizione dei consociati.
Illiceità della causa e contrarietà al buon costume del contratto di compravendita di un minore
Applicando tali coordinate al caso di specie, si pone il problema di comprendere se la pretesa vantata dai coniugi – consistente nella restituzione della somma di trentamila euro, stante la mancata consegna del minore – possa reputarsi meritevole di protezione giuridica.
Come osservato dalla Cassazione, l’accordo stipulato tra le parti, volto al conseguimento della disponibilità di un minore in totale spregio delle norme vigenti, deputate a disciplinare il procedimento di adozione – per di più a fronte del pagamento di una somma di denaro – si caratterizza per la presenza di una causa illecita, con la conseguenza che l’ordinamento non possa apprestarvi alcuna forma di tutela.
A conforto di tale primo rilievo, i giudici di legittimità hanno inoltre evidenziato che il contratto in parola non soltanto fosse attinto dall’illiceità della causa, ma risultasse altresì contrario al buon costume, nell’accezione ampia fatta propria dalla stessa Cassazione in sede civile, al cui interno includere, oltre alle prestazioni contrarie alle regole della morale sessuale o della decenza, anche quelle contrastanti con i principi e le esigenze etiche, costituenti la morale sociale in un determinato ambiente e in un certo momento storico.
A completamento del proprio ragionamento, la Corte richiama la regola enunciata nell’art. 2035 c.c., che prevede che nell’ipotesi in cui un soggetto abbia eseguito una prestazione per uno scopo che, anche da parte sua, costituisca offesa al buon costume, non possa poi chiedere la restituzione di quanto pagato.
Nel caso in esame la Cassazione è pertanto giunta a sancire che la condotta serbata dagli imputati fosse oggettivamente contraria al buon costume, in quanto idonea ad incidere su diritti fondamentali dell’individuo e, in particolare, del minore, che avrebbe rischiato di subire la perdita delle proprie relazioni parentali e del diritto di crescere nel proprio nucleo familiare di provenienza.
Conclusioni. Il difetto di tutela giuridica della pretesa restitutoria del prezzo versato per l’acquisto del minore e la natura estorsiva delle minacce volte ad ottenerne la restituzione
In via conclusiva, l’odierna pronuncia perviene, da un lato, a decretare il radicale contrasto, con le regole vigenti nel nostro ordinamento, del contratto che abbia ad oggetto la compravendita di un soggetto minorenne, derivante sia dall’illiceità della causa che lo sorregge, sia dalla contrarietà al buon costume delle prestazioni in esso dedotte, dal momento che per il tramite di tale tipologia di negozio si mirava al conseguimento di una utilitas, operando però al di fuori del circuito legale in materia di adozione dei minori.
Dall’altro lato, ed è ciò che più rileva sul versante penale, la Cassazione sancisce che la condotta minatoria posta in essere allo scopo di ottenere la restituzione della somma di denaro precedentemente versata – nei fatti, peraltro, non ottenuta, tanto da ritenersi integrato il reato di estorsione nella forma tentata – non può realizzare la figura criminosa dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni.
Difatti, come chiarito, seppur il comportamento realizzato da coloro che avevano promesso la consegna del minore appare, quantomeno sul piano morale, a sua volta riprovevole, si è comunque affermato che la pretesa restitutoria avente ad oggetto la somma di trentamila euro non avrebbe potuto trovare alcuna forma di tutela al cospetto dell’Autorità pubblica, in ragione della contrarietà al buon costume dell’accordo negoziale nel cui ambito era stata devoluta e della correlata, inconfutabile, consapevolezza in capo agli imputati di non vantare una pretesa meritevole di protezione attraverso il ricorso agli ordinari strumenti di tutela delle situazioni giuridiche soggettive oggetto di disciplina all’interno dell’ordinamento.