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L’operazione contestata dall’Amministrazione finanziaria
La controversia decisa dai giudici di legittimità riguarda una complessa riorganizzazione aziendale realizzata attraverso distinte e consequenziali operazioni e conclusasi con una fusione per incorporazione all’esito di cui era emerso un disavanzo da fusione, affrancato gratuitamente dal contribuente ai sensi dell’art. 7, d.lgs. 8 ottobre 1997, n. 358.
Ad avviso dell’Agenzia delle Entrate, dall’operazione così realizzata conseguirebbero indebiti vantaggi fiscali per il contribuente, rappresentati, in primis, dalla rivalutazione del valore del marchio facente parte del patrimonio dell’incorporata, cui consegue il riconoscimento fiscale di quote di ammortamenti altrimenti da considerarsi indeducibili, senza il pagamento di alcuna imposta sostitutiva.
I giudici di legittimità decidendo la causa hanno confermato l’illegittimità dell’operazione contestata, ritenendo che il medesimo fine economico conseguito attraverso il complesso insieme di operazioni realizzate dalla contribuente, sarebbe stato raggiungibile anche attraverso una più lineare operazione di trasformazione omogenea della società che, tuttavia, non avrebbe permesso al contribuente di ottenere gli evidenti vantaggi fiscali ottenuti mediante l’affrancamento del disavanzo da fusione.
I canoni per la valutazione dell’operazione indicati dai giudici della Corte di Cassazione
Nel dirimere la controversia, i giudici di legittimità hanno avuto modo di ribadire i canoni che devono rispettare le operazioni di riorganizzazione societaria, soprattutto nei casi in cui si sostanzino in più operazioni tra loro collegate, per essere riconosciute come legittime dall’Amministrazione finanziaria, ritenendo che la fattispecie elusiva si concretizzi laddove si sia in presenza di un vantaggio fiscale predominante e assorbente rispetto all’operazione verificata e laddove manchino valide ragioni economiche diverse dall’abbattimento del carico fiscale.
In particolare, infatti, con la pronuncia in commento, la Suprema Corte ha avuto modo di riaffermare il principio, già consolidato in giurisprudenza (cfr. Cass. n. 10257/2008; 21221/2006), secondo cui sussisterebbe in capo al contribuente l’onere di dimostrare che l’operazione realizzata è “giustificata da "valide ragioni economiche", sia pure in via concorrente al perseguito risparmio fiscale”, dovendosi intendere per tali quelli “ragioni economiche” che “siano "valide", ossia di carattere "non meramente marginale o teorico", perché in tal caso risulterebbero "inidonee a fornire una spiegazione alternativa dell'operazione rispetto al mero risparmio fiscale, e tali quindi da potersi considerare manifestamente inattendibili o assolutamente irrilevanti rispetto alla predetta finalità”. Invero, ad avviso dei giudici di legittimità “due sono gli indici di mancanza di sostanza economica: la non coerenza della qualificazione delle singole operazioni con il fondamento giuridico del loro insieme e la non conformità degli strumenti giuridici a normali logiche di mercato, mentre per vantaggi fiscali indebiti si considerano i benefici realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell'ordinamento tributario”.
Di talché, ad avviso dei giudici di legittimità, rientrano tra le operazioni da considerarsi elusive quelle “compiute "essenzialmente" (anche se non esclusivamente) per il conseguimento di un vantaggio fiscale”, non ritenendosi sufficiente “al fine di negare il carattere elusivo dell'operazione”, la “compresenza purchessia di ragioni extrafiscali indipendentemente dalla loro effettiva rilevanza”.
Conclusioni
Sulla scorta di tali argomentazioni, la Suprema Corte ha rilevato come, al fine di verificare la sussistenza di valide ragioni economiche, non possa ritenersi sufficiente un’analisi che si limiti a valutare le “particolari strategie aziendali” senza “esaminare l’assetto sociale del gruppo, prima e dopo le complesse operazioni poste in essere, quale fattore potenzialmente determinante ai fini della valutazione dell’elusività della condotta”.
E così ritenendo che nel caso di specie “il carattere anomalo e "circolare" dell'operazione” non fosse adeguatamente giustificato da valide ragioni economiche extrafiscali con il conseguente disconoscendo dell’affrancamento gratuito del disavanzo da fusione e, ex se, della deducibilità delle quote di ammortamento relative al marchio facente parte del patrimonio dell’incorporata.
L’approdo cui giungono i giudici di legittimità si pone in continuità con l’orientamento prevalente della giurisprudenza, secondo cui per porre in essere una riorganizzazione aziendale lecita, non solo è necessario che la stessa sia sorretta, anche, da valide ragioni economiche, ma è indispensabile che queste siano apprezzabili e non marginali. Resta, tuttavia, la necessità di valutare le operazioni astrattamente elusive caso per caso ed alla luce delle loro peculiarità.