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L’attuale situazione di emergenza derivante dalla diffusione del COVID-19 sul territorio italiano ha avuto un impatto significativo sia sulle persone fisiche, soggette ad importanti limitazioni di movimento e dei propri diritti fondamentali[1], sia sull’attività imprenditoriale, investita da diversi provvedimenti emanati dall’Autorità.
Fatta eccezione per le attività che il Governo - mediante l’emanazione di due Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri[2] - ha ritenuto necessario sospendere temporaneamente[3] (dapprima nella Regione Lombardia ed in alcune Province e poi estese a tutto il territorio italiano) sono infatti ancora molte le realtà imprenditoriali operative alle quali l’esecutivo ha fornito alcune indicazioni per contrastare la diffusione dell’epidemia pur nella prosecuzione del lavoro, rimettendo al singolo datore di lavoro una serie di valutazioni e decisioni operative sicuramente delicate e da prendersi in una situazione di continuo divenire.
Alla luce di ciò, lo svolgimento di qualsivoglia attività lavorativa in siffatto contesto emergenziale parrebbe aver ulteriormente espanso la posizione di garanzia gravante sul datore di lavoro, il quale ai sensi dell’art. 2087 c.c. deve “adottare nell'esercizio dell'impresa le misure […] necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”, comportando la conseguente necessità di rimodulare l’organizzazione aziendale per fronteggiare il rischio di contagio da c.d. coronavirus.
Invero, l’attività di prevenzione del datore di lavoro, sebbene il rischio di contagio non possa ricomprendersi entro i confini del rischio professionale stricto sensu inteso poiché non direttamente collegato all’attività produttiva[4], non può e non deve limitarsi ad impedire rischi diretti relativi alla mansione svolta, dovendo le misure di sicurezza ricomprendere “la valutazione di tutti i rischi per la salute e sicurezza”, secondo quanto disposto dall’art. 15 del T.U.S.L.
Ad avvalorare tale assunto anche quanto disposto dal c.d. Decreto Cura Italia[5], il quale ha inteso sostanzialmente equiparare i casi di infezione da COVID-19 avvenuti “in occasione di lavoro” agli infortuni occorsi sul lavoro, prevedendo che “il medico certificatore redig[a] il consueto certificato di infortunio e lo invia telematicamente all'INAIL che assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell'infortunato”.
Siffatta ipotesi lascia tuttavia alcune perplessità: viene infatti qualificato come infortunio un evento che pare più propriamente doversi ricondurre entro la categoria della “malattia professionale”, poiché deriva dall’esposizione – sebbene avvenuta in un lasso temporale ristretto – ad un fattore di rischio (il COVID-19 appunto) e non da un c.d. evento traumatico.
Tale scelta si riverbera sul cruciale accertamento del nesso di causalità: la previsione del Decreto pare infatti introdurre una sorta di presunzione che correla direttamente qualsiasi contagio emerso entro il contesto lavorativo ad una negligenza del datore di lavoro.
Tuttavia, al fine dell’ascrizione della responsabilità colposa, soprattutto nel caso di malattie ad eziologia monofattoriale[6] - come quella derivante dall’infezione da coronavirus - che possono però conseguire da molteplici circostanze di esposizione al fattore di rischio, sarà necessario accertare in sede giudiziale, al di là di ogni ragionevole dubbio[7], che il contagio sia avvenuto sul luogo di lavoro, verificando in seconda istanza se il comportamento alternativo richiesto al datore di lavoro sarebbe stato idoneo ad impedire l’evento[8].
In caso di contagio del lavoratore pare quindi plausibile che possa venire contestata a titolo di colpa (ferma restando la necessaria ed alquanto complessa valutazione sul nesso di causalità) l’integrazione delle fattispecie di lesioni/omicidio per violazione della normativa sulla sicurezza sul lavoro, e ciò non solo individualmente in capo al datore di lavoro ma anche a titolo di responsabilità amministrativa[9] da reato ex D.lgs. 231/2001 addebitata alla società qualora l’illecito venga commesso a vantaggio o nell’interesse della stessa[10].
Per tali motivi è opportuno che le realtà produttive ancora operative adottino adeguate procedure idonee a prevenire il rischio di contagio di COVID-19 da inserire tempestivamente nel Modello di Organizzazione, Gestione e Controllo[11].
A tal fine è di primaria importanza svolgere un puntuale risk assessment, valutando le aree di lavoro e gli individui ritenuti soggetti allo specifico rischio da prevenire, il grado del rischio individuato e le modalità con cui il rischio può concretamente realizzarsi.
Successivamente, dando la priorità alle misure collettive rispetto a quelle individuali (secondo la gerarchia stabilita dalla normativa - artt. 15 e 75 T.U.S.L. - e dalla Giurisprudenza[12]), i protocolli da implementare dovranno afferire dapprima l’organizzazione lavorativa, prevedendo la segregazione degli ambienti di lavoro (anche favorendo lo smartworking ove possibile) e garantendo la separazione interpersonale, anche mediante sistemi fisici/tecnici, prevenendo il c.d. droplet.
Potranno essere poi forniti ai dipendenti idonei dispositivi di protezione individuali (guanti e mascherine) e, da ultimo, qualora siffatte misure siano ritenute insufficienti, si dovrà provvedere ad una rimodulazione organizzativa (riorganizzazione dei turni, riduzione degli orari di lavoro, chiusura dei reparti).
In sintesi, anche il rischio di infezione da COVID-19 deve essere inibito adottando tutte le misure a disposizione ed in caso di contagio del dipendente dovuto a negligenza del datore di lavoro, potrà essere chiamato a rispondere sia quest’ultimo personalmente sia l’ente a titolo di responsabilità amministrativa.
Va sottolineato che per prevenire tale eventualità è anche necessario che sia garantita la “continuità di azione[13]” dell’Organismo di Vigilanza (che può ovviamente operare con modalità da remoto), il quale – tanto più in una situazione di tipo emergenziale come quella attuale – è tenuto ad informare prontamente l’organo esecutivo eventualmente intempestivo nell’adottare le misure opportune.
[13] Requisito necessario al fine di poter beneficiare dell’esimente di cui all’art. 6 del D.lgs. 231/2001 ed indicato dalle più recenti Linee Guida.