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La riforma del diritto concorsuale e i nuovi orizzonti del diritto penale fallimentare
Il Codice della Crisi e dell’Insolvenza, introdotto con il D.Lgs. n. 14/2019, muta le fattezze dell’ordinamento concorsuale con l’intento di salvaguardare le risorse produttive e la prosecuzione dell’attività d’impresa, relegando l’estromissione della stessa dal mercato solo come ultima ratio. Il nuovo Codice ridefinisce, infatti, il panorama degli strumenti di regolazione della crisi d’impresa, curando persino il dato meramente terminologico: non si parla più di “fallimento” bensì di “liquidazione giudiziale”. Si tratta ad ogni modo di una riforma che ha coinvolto unicamente il diritto concorsuale. Non interferisce infatti, perlomeno in maniera espressa, con il versante del diritto penale dell’insolvenza, nonostante l’indiretto ampliamento della fattispecie di cui all’art. 236 L.F. (ora art. 341 CCI) verso il quale si nutrono forti dubbi di legittimità costituzionale stante la mancanza di qualsivoglia riferimento all’interno della Legge Delega n. 155/2017.
Tuttavia, a prescindere da espliciti interventi sul fronte penalistico, il radicale mutamento del contesto in cui si colloca il “nuovo” diritto penale dell’insolvenza conduce inevitabilmente ad un ripensamento dei confini dei reati fallimentari. Ciò in quanto il Legislatore pone come principio guida la preservazione dell’attività d’impresa, muovendosi in un’ottica non più patologica, bensì preventiva: ovvero attraverso la previsione di strumenti deputati a gestire la crisi ancor prima che trascenda nell’insolvenza e, soprattutto, con l’imposizione dell’obbligo in capo all’imprenditore, individuale o collettivo, di dotarsi di un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’attività, in grado di rilevare tempestivamente i segnali di difficoltà. Proprio con riferimento a tale ultimo aspetto, introdotto con il secondo comma dell’art. 2086 c.c., si hanno le più rilevanti ripercussioni tanto dal punto di vista strutturale dell’attività d’impresa, tanto dal lato della rilevanza penale delle condotte realizzate dall’imprenditore.
Quanto al primo, è inevitabile richiamare l’esperienza maturata in tema di compliance aziendale ai sensi del D.Lgs. 231/2001. Infatti, l’implementazione di modelli di organizzazione e gestione, seppur non obbligatoria, costituisce al giorno d’oggi un must-have nel mondo delle imprese: l’adozione di un adeguato sistema di controlli interni è indice di affidabilità aziendale ormai indispensabile nel mercato concorrenziale. Sotto il profilo strutturale, il dato di partenza per i nuovi assetti indicati nell’art. 2086 comma 2 c.c. non può che essere proprio la rete di controlli interni derivante dal D.Lgs. 231/2001. Con ciò si intende la strutturazione di un sistema tagliato sulla realtà aziendale di riferimento e architettato secondo la tecnica di risk approach applicata al monitoraggio e alla gestione di eventuali squilibri reddituali, patrimoniali e finanziari.
Bancarotta e Codice della Crisi: un nuovo perimetro per l’imprenditore?
Il predetto obbligo a carico dell’imprenditore cristallizza una volta per tutte il modello di gestione prudenziale dell’attività d’impresa rispetto alla tempestiva rilevazione di indici della crisi e le successive iniziative al fine di accedere a strumenti previsti dall’ordinamento per superare l’impasse e recuperare la continuità aziendale. Tale impostazione, inevitabilmente, non può che riverberarsi anche sull’interpretazione in chiave penalistica delle condotte poste in essere dall’imprenditore sia con riferimento alla mancata o inadeguata adozione di una simile struttura, sia in merito alla sua successiva attuazione durante la vita dell’impresa.
Più in generale, la nuova ratio perseguita dal legislatore si erge potenzialmente come parametro valutativo delle condotte realizzate dall’imprenditore. Così, all’interno del procedimento penale a carico di quest’ultimo possono introdursi degli elementi in passato del tutto esclusi dal raggio di valutazione degli interpreti. Si pensi all’ipotesi della mancata strutturazione aziendale secondo i canoni stabiliti dall’art. 2086 comma 2 c.c. o alla conduzione dell’attività d’impresa con totale noncuranza di eventuali indici sopra soglia: benché non costituiscano elementi giuridici indefettibili per integrare una fattispecie di bancarotta, rappresentano comunque una forte evidenza del contesto di crisi dell’impresa che dovrebbe spingere l’imprenditore ad evitare determinate condotte o, al contrario, ad adottare le iniziative necessarie.
Ad ogni modo, prescindendo dai risvolti interpretativi propri del “nuovo” diritto penale dell’insolvenza, è bene rammentare che la responsabilità penale dell’imprenditore si configura unicamente laddove sussistano gli elementi oggettivi e soggettivi propri della fattispecie di bancarotta di riferimento (patrimoniale o documentale, fraudolenta o semplice che sia). In altri termini: la mancata predisposizione di adeguati assetti organizzativi non può comportare direttamente l’imputazione per fatti di bancarotta. Precisazione necessaria dal momento che i precetti penal-fallimentari non sono stati minimamente toccati, trattandosi di una mera rivisitazione di parametri interpretativi delle fattispecie di reato alla luce del mutato contesto in cui si inseriscono. In altri termini, è come se si desse forma alla c.d. “zona di rischio penale” più volte trattata in dottrina e giurisprudenza, delimitando temporalmente l’area di pericolo economico-finanziario in cui si trova l’impresa e di cui l’imprenditore dovrebbe aver contezza. L’eventuale allerta determinata da indici di monitoraggio sopra soglia potrebbe infatti rappresentare, in un contesto processuale, tanto il presupposto oggettivo per l’integrazione di atti distrattivi o altre condotte tipizzate, tanto la base soggettiva per poter ascrivere all’imprenditore la consapevolezza dello stato di crisi, delineando così chiari confini entro i quali l’attività imprenditoriale necessita di una conduzione maggiormente prudente.
Per converso, la sussistenza di parametri sotto soglia al momento del fatto di bancarotta (ad esempio, il pagamento ritenuto “preferenziale” a favore di un creditore) potrà essere valorizzato dalla difesa a sostegno dell’insussistenza, tanto oggettiva che soggettiva, della fattispecie.
A ben vedere vi è un ulteriore risvolto. L’obbligo organizzativo di cui all’art. 2086 co. 2 c.c. rischia infatti di trasformarsi in una vera e propria regola cautelare in capo all’imprenditore, del pari dell’art. 2087 c.c. in tema di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro laddove impone di adottare le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori. Ancor più rilevante in ordine all’ipotesi di bancarotta semplice “impropria” di cui all’art. 330, comma 1, lett. b) CCI relativa alle condotte realizzate da amministratori, direttori generali, sindaci e liquidatori di società dichiarate in liquidazione giudiziale, in quanto la mancata adozione di adeguati assetti organizzativi, amministrativi e contabili finalizzati alla tempestiva rilevazione della crisi potrebbe in astratto fondare una responsabilità colposa a carico di questi per aver “concorso a cagionare od aggravare il dissesto della società con inosservanza degli obblighi ad essi imposti dalla legge”.
Insomma, sebbene non vi sia un diretto intervento sul ventaglio delle fattispecie penal-fallimentari, il sistema introdotto dal Codice della Crisi offre indubbiamente, dal punto di vista processuale e interpretativo, nuovi parametri attraverso i quali valutare in chiave penalistica le condotte poste in essere dall’imprenditore. Ovvero, in ragione della finalità preventiva, favorisce l’emersione di segnali di crisi in cui versa l’impresa e, dunque, fornisce un perimetro temporale più chiaro con riferimento alle situazioni di squilibrio economico-finanziario entro il quale l’imprenditore sarà chiamato ad agire secondo canoni di prudenza al fine di risanare l’azienda o quantomeno provarci.