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Il Decreto Agosto ha prorogato il divieto di licenziamenti – individuali e collettivi – per motivi economici ricollegandolo, però, alla fruizione dei trattamenti di integrazione salariale ovvero all’esonero dal versamento dei contributi previsti dallo stesso decreto (rispettivamente agli artt. 1 e 3).
In particolare, l’art. 14 del Decreto 104/2020 prevede che ai datori di lavoro che non abbiano integralmente fruito dei nuovi trattamenti di integrazione salariale riconducibili all'emergenza epidemiologica da COVID-19 (complessivamente 18 settimane da fruirsi tra il 13 luglio ed il 31 dicembre 2020), ovvero del nuovo esonero dal versamento dei contributi previdenziali resta precluso l'avvio delle procedure di licenziamento collettivo (artt. 4, 5 e 24 L. 223/1991) e restano, altresì, sospese le procedure pendenti avviate successivamente alla data del 23.02.2020.
Ai sensi del comma 2 dell’art. 14, altresì, preclusa al datore di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti, la facoltà di recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo (art. 3 L. 604/1966), e restano altresì sospese le procedure in corso ex art. 7 L. 604/1966 (comunicazione preventiva di licenziamento all’ITL).
Come detto, la data in cui viene meno la sospensione delle procedure di licenziamento ed il divieto di licenziamento per gmo non è uguale per tutti, essendo correlata all’integrale fruizione delle 18 settimane di integrazioni salariali o, in alternativa, al termine del periodo di esonero contributivo per chi – avendo già fruito dei trattamenti di integrazione salariale Covid nei mesi di maggio e giugno - rinunci agli ammortizzatori COVID.
Ad esempio, per un’azienda che utilizzi le 18 settimane di integrazione salariale senza soluzione di continuità a partire dal 13 luglio, il periodo di integrazione salariale scadrebbe il 15 novembre e, dunque, a partire dal 16 novembre potrebbe procedere con i licenziamenti.
Per espressa previsione legislativa le preclusioni e le sospensioni non si applicano:
- Nell’ipotesi di licenziamenti motivati dalla cessazione definitiva dell'attività dell'impresa, conseguenti alla messa in liquidazione della società senza continuazione, anche parziale, dell'attività, nel caso in cui nel corso della liquidazione non si configuri la cessione di un complesso di beni od attività che possano configurare un trasferimento d'azienda o di un ramo di essa (art. 2112 C.C.);
- in caso di accordo collettivo aziendale, stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale, di incentivo alla risoluzione del rapporto di lavoro, limitatamente ai lavoratori che aderiscono al predetto accordo; a detti lavoratori è comunque riconosciuto il trattamento NASPI (art. 1 D. Lgs. 22/2015);
- ai licenziamenti intimati in caso di fallimento, quando non sia previsto l'esercizio provvisorio dell'impresa, ovvero ne sia disposta la cessazione. Nel caso in cui l'esercizio provvisorio sia disposto per uno specifico ramo dell'azienda, sono esclusi dal divieto i licenziamenti riguardanti i settori non compresi nello stesso.
Sin qui sembra essere tutto chiaro.
Ma un’azienda che non intenda usufruire delle ulteriori 18 settimane di integrazioni salariali di cui all’art. 1 e che non sia nelle condizioni chiedere l’esonero contributivo di cui all’art. 3 (o non intenda richiederlo) quando può licenziare?
Poniamo, in particolare, il caso di un’azienda che sino ad oggi non ha avuto alcuna necessità di accedere ai trattamenti di integrazione salariale e che si ritrova nella necessità di licenziare un lavoratore per motivi oggettivi del tutto estranei all’emergenza Covid (magari perché tale lavoratore è divenuto inidoneo alla mansione e non vi è possibilità di reimpiego, oppure per ragioni di maggior produttività aziendale). In tal caso sarebbe possibile procedere al licenziamento già oggi?
Pur nel silenzio normativo, e considerato che la normativa emergenziale di questi mesi ha collegato il temporaneo divieto di licenziamento all’introduzione delle integrazioni salariali con causale COVID-19, una lettura prudenziale della norma porterebbe a concludere che tali aziende non possano comunque licenziare sino al 31 dicembre 2020, ossia per tutto il periodo in cui sarebbero astrattamente fruibili le nuove 18 settimane di cassa integrazione Covid o i 4 mesi di esonero contributivo.
D’altronde l’art. 14 sembra ammettere una deroga al divieto di licenziamento solo nelle ipotesi ivi espressamente menzionate (fallimento o liquidazione della società; accordo collettivo aziendale di incentivo alla risoluzione del rapporto; cambio appalto).
Ad analoghe conclusioni porterebbe anche la previsione di cui al comma 4 dell’art. 14 che prevede, in deroga alla disciplina generale di cui all’art. 18 comma 10 della Legge n. 300/1970, la possibilità di revocare in ogni tempo i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo eventualmente comminati, purchè il datore di lavoro faccia contestualmente richiesta del trattamento di integrazione salariale.
A ben vedere, però, un’azienda non danneggiata dall’epidemia in atto (e che quindi non avrebbe titolo di accedere ai trattamenti di integrazione salariale per Covid) e che si ritrovi nella necessità di dover licenziare per un motivo oggettivo a sua volta del tutto estraneo rispetto all’emergenza in atto, si ritroverebbe con le “mani legate” in quanto, da un lato, non potrebbe chiedere l’integrazione salariale e, dall’altro, si ritroverebbe soggetta al divieto di licenziamento sino al 31.12.2020.
Mi parrebbe questa una situazione in contrasto rispetto al principio costituzionale di libertà d’impresa di cui all’art. 41 Cost.
V’è però da domandarsi, in tali situazioni, se sia preferibile soprassedere ancora qualche mese prima di procedere con i licenziamenti, oppure correre il rischio di imbarcarsi in contenziosi, certamente interessanti dal punto di vista giuridico, ma quantomeno insidiosi per quanto riguarda i possibili costi connessi.