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L’art. 5 d.l. 8 aprile 2020, n. 23 (c.d. “Decreto liquidità”) ha opportunamente differito al 1 settembre 2021 l’entrata in vigore delle altre disposizioni del Codice della Crisi d’Impresa, sebbene lo stesso Decreto “liquidità” ne anticipi alcune previsioni e principi per un determinato arco temporale: si pensi, in particolare, (i) alla sospensione fino al 31.12.2020 degli adempimenti inerenti alla riduzione del capitale sociale; (ii) o alla deroga al principio di postergazione dei finanziamenti soci, di cui all’art. 9 del Decreto “liquidità”, norma anche in tal caso speculare, non solo per ratio, all’art. 102 del Codice della Crisi d’Impresa.
L’intento del legislatore con il Decreto “liquidità” sembra essere stato quello di basarsi su uno dei principi cardine del Codice della Crisi d’Impresa. Ci riferiamo alla distinzione della fase di “crisi” dell’impresa da quella di “insolvenza”. In questo contesto è prevista la sterilizzazione, almeno per la durata del periodo dell’emergenza pandemica, della rilevanza dei principali indicatori della fase della crisi. Questa sospensione attiene anche agli effetti dell’adozione dei criteri di redazione dei bilanci: si pensi al disposto dell’art. 7 del Decreto “liquidità” ed alla temporanea deroga della valutazione delle voci di bilancio nella prospettiva di continuità aziendale di cui all’art. 2423 bis comma prima n. 1 cod. civ. se rapportato all’art. 13, primo comma, del Codice della Crisi d’Impresa.
E’ del resto la stessa relazione Illustrativa al Decreto “liquidità” a rimarcare tra i motivi che hanno ispirato il differimento dell’entrata in vigore del Codice della Crisi d’Impresa, proprio il rischio che l’eventuale introduzione della c.d. procedure di allerta, avrebbe potuto arrecare, in questo momento, sulla stabilità del quadro economico generale.
L’assenza però di una regolamentazione, distinzione e gestione della crisi rispetto alla insolvenza pone nell’attuale contesto normativo alcuni interrogativi che non trovano adeguata risposta nei provvedimenti adottati con il Decreto “liquidità”.
Gli effetti economici derivanti dall’emergenza pandemica potrebbero condurre a dissesti di numerose attività imprenditoriali, che non avranno la possibilità di superare indenni questo periodo di forzata limitazione del diritto al lavoro. L’auspicio ovviamente è che queste crisi non debbano necessariamente condurre a dichiarazioni di fallimento.
Si è in tal senso argomentato che gli imprenditori soggetti a fallimento potrebbero invocare l’emergenza pandemica come causa di forza maggiore atta ad evitare la dichiarazione di insolvenza e quindi il fallimento. Si è in particolare sostenuto, sulla base di un precedente giurisprudenziale che ha respinto l’istanza di fallimento nei confronti di un imprenditore che aveva eccepito che la propria condizione era stata determinata da factum principis, che la pandemia e le conseguenze che essa ha comportato e comporteranno potrebbero fondatamente costituire, per lo meno in molti casi, ragione giustificativa del dissesto e quindi preclusiva della dichiarazione di fallimento.
In realtà la giustificazione dell’evento di forza maggiore come causa impeditiva dell’accertamento dello stato di “insolvenza” non convince, per un principale motivo: l’insolvenza prescinde da una valutazione della colpa dell’imprenditore (art. 1218 cod. civ.) rispetto all’evento che la determina, concretato dall’incapacità dello stesso di far fronte regolarmente alle proprie obbligazioni. In questo senso il richiamo alla forza maggiore come unica causa preclusiva della dichiarazione di fallimento appare quindi inadeguata alla necessaria salvaguardia dei creditori e dello stesso imprenditore.
L’art. 10 del Decreto “liquidità” ha sancito l’improcedibilità delle istanze per la dichiarazione di fallimento depositate fino al 30 giugno 2020. Sebbene ispirata all’esigenza di introdurre l’incidenza dell’emergenza pandemica (e quindi dell’evento di forza maggiore) quale criterio di valutazione della “crisi” dell’impresa e, se del caso, del definitivo accertamento dello stato di insolvenza, la disposizione nel suo risultato precettivo delude in verità tale opportuno e condivisibile principio. Infatti, la sanzione di improcedibilità delle istanze di fallimento per il limitato periodo previsto dall’art. 10 non appare misura idonea, per almeno una duplice ragione:
i) da un lato, è ragionevole ritenere che nel maggior numero delle istanze di fallimento che avrebbero potuto essere presentate dall’entrata in vigore del Decreto “liquidità” e fino al 30 giugno 2020 lo stato di insolvenza denunciato si sarebbe riferito ad una situazione di dissesto consolidatasi in data anteriore allo stato di crisi generato dalla pandemia Covid-19;
ii) dall’altro lato, è invece facilmente pronosticabile che la crisi delle imprese dettata dalla stessa pandemia si verrà a manifestare nella sua gravità in termini di consolidamento dell’insolvenza in data successiva al 30 giugno 2020.
Inoltre, una generalizzata paralisi del ricorso alle istanze di fallimento rischia di pregiudicare irrimediabilmente i diritti dei creditori di quei soggetti il cui stato di insolvenza non abbia alcun concreto e reversibile rapporto causale con gli effetti della pandemia, o la cui temporanea situazione di “crisi” non risulti successivamente reversibile.
A tale ultimo riguardo non pare che il disposto di cui al terzo comma dell’art. 10 del Decreto “liquidità” consenta di compensare e temperare tale pregiudizio. La norma stabilisce che “quando alla dichiarazione di improcedibilità dei ricorsi presentati nel periodo di cui al comma 1 fa seguito la dichiarazione di fallimento, il periodo di cui al comma 1 non viene computato nei termini di cui agli articoli 10 e 69bis del regio decreto 16 marzo 1942 n. 267.” Se la volontà del legislatore era con tale previsione preservare anche l’esercizio delle azioni revocatorie fallimentari nel caso in cui alla dichiarazione di improcedibilità segua il fallimento, l’intento non sembra tuttavia felicemente realizzato. Appare infatti quantomeno arduo desumere da tale disposizione un’estensione analogica anche alla fattispecie del principio di consecutio tra procedure concorsuali sancito dal secondo comma dell’art. 69-bis l. fall. Se, infatti, la norma può avere un senso – anche se di dubbia utilità – rispetto al termine di prescrizione per l’esercizio dell’azione revocatoria fallimentare previsto dal primo comma dell’art. 69-bis l. fall., non pare, invece, plausibile un’interpretazione che conduca a ritenere il riconoscimento di una consecutio tra il momento della presentazione della domanda di fallimento, pur se improcedibile, e la decorrenza dei termini di “periodo sospetto” previsti dall’art. 67, primo e secondo comma l. fall.: nel caso disciplinato dall’art. 10 del Decreto “liquidità”, infatti, non vi è alcun passaggio tra le due procedure concorsuali.
Sarebbe stato certamente più opportuno prevedere, sul modello di quanto stabilito dall’art. 166 dello stesso Codice della Crisi d’Impresa, che il periodo sospetto non decorrerà più a ritroso dalla dichiarazione di fallimento, come oggi previsto dall’art. 67 l. fall., bensì dal deposito della domanda rivolta ad ottenere la liquidazione giudiziale (o, allo stato, il fallimento).
Ma anche laddove il disposto del terzo comma dell’art. 10 del Decreto liquidità si potesse interpretare in questo senso, attraverso un arduo sforzo di estensione analogica del disposto di cui all’art. 69 bis l. fall., appare assai improbabile che di fronte alla certezza di una dichiarazione di improcedibilità dell’istanza di fallimento, qualsiasi creditore sia indotto comunque a presentare la relativa domanda.