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La disciplina della exit societaria dà luogo a negoziazioni sempre vivaci: si tratta di un momento cruciale di sintesi delle prospettive delle parti rispetto all’investimento e dei relativi orizzonti temporali attesi, entrambi per lo più non coincidenti.
Pensiamo alla dialettica ricorrente tra socio investitore e socio imprenditore. Il primo punta tipicamente ad una exit efficiente, che, in certi scenari, non può prescindere dalla vendita congiunta del cento per cento. Il secondo coltiva spesso la legittima aspirazione a “riprendersi” il capitale nella sua interezza, ed è dunque orientato a previsioni (prelazione, fist call, ecc.) non esattamente in linea con gli obiettivi di exit accelerata del socio investitore.
In tale quadro di complessità negoziale si inseriscono delicati profili di legittimità delle clausole di exit, soprattutto laddove le si voglia recepire nello statuto, secondo una tendenza ricorrente (sia per ragioni di opponibilità ai terzi, sia per superare il limite di cinque anni di efficacia dei patti parasociali).
Una centrale questione di legittimità si collega al principio di “equa valorizzazione” della partecipazione del socio forzato alla vendita.
L’equa valorizzazione è tipicamente riferita ad un parametro minimo coincidente con il valore di liquidazione della partecipazione che spetterebbe in caso di recesso nelle ipotesi legali, valore richiamato dalla legge anche per il caso delle azioni riscattabili (artt. 2437, 2437-ter, 2437-sexies, c.c.).
Per semplicità, nel seguito, utilizziamo l’espressione “parametro minimo” per intendere tale valore di liquidazione previsto per il recesso legale e per il riscatto.
Il parametro minimo tiene conto, nelle s.p.a. non quotate, “della consistenza patrimoniale della società e delle sue prospettive reddituali, nonché dell’eventuale valore di mercato delle azioni” (art. 2437-ter, c.c).
La determinazione è fatta dagli amministratori, sentiti gli organi di controllo e, in caso di contestazione, da un esperto nominato dal Tribunale.
Il tema dibattuto è il seguente: se, e in quali clausole di exit, il parametro minimo debba essere considerato, analogamente a quanto è previsto per le azioni riscattabili, detto che non sempre il parametro minimo è gradito alle parti, per una sua non immediata determinazione, in termini sia di quantificazione (controvertibile), sia di processo (abbiamo richiamato la tendenza crescente a soluzioni di exit accelerata).
Alcune fattispecie:
1. Clausole di drag along (trascinamento)
È prevalente (in giurisprudenza e negli orientamenti notarili) l’opinione per cui tali clausole generino nel socio trascinato uno “stato di soggezione” e di “coazione alla dismissione”, tale da richiedere l’applicazione o quanto meno la compatibilità con il parametro minimo, al pari di quanto è previsto per le azioni soggette a riscatto.
Sono di rilevante interesse alcune visioni critiche rispetto a tale approccio limitativo.
Esse evidenziano come il drag along abbia caratteri di equa valorizzazione intrinseca, tali da rendere forse superfluo il riferimento al parametro minimo; ad esempio:
- a differenza del riscatto di azioni, il drag along muove dall’offerta di un terzo, dunque proveniente dal mercato, e perciò tendenzialmente attendibile (sull’assunto naturale della buona fede del terzo, mancando la quale intervengono altre tutele generali);
- non solo, il drag along, nell’applicare le stesse condizioni a tutte le partecipazioni, tende ad assicurare anche al socio trascinato un premio di maggioranza, che altrimenti non spetterebbe;
- ancora, il drag along è spesso accompagnato da un diritto di prelazione del socio trascinato, che ne attenuta lo “stato di soggezione”, in quanto lo abilita a sostituirsi al terzo acquirente alle medesime condizioni;
- e soprattutto il drag along è spesso accompagnato da un diritto di tag along; ciò induce a riconsiderare la condizione del socio soggetto al trascinamento in un’ottica di assetto statutario complessivo, con una possibile visione ancora attenuata del citato “stato di soggezione”.
2. Clausole di “russian roulette” o “shotgun” (indicazione da parte di un socio di un prezzo al quale è disposto, alternativamente, ad acquistare l’altrui partecipazione, o a vendere la propria, con correlati diritti/soggezioni alla vendita o all’acquisto in capo all’altro socio)
Tali clausole sono generalmente finalizzate alla risoluzione di stalli decisionali, ma sono anche utilizzate quali puri strumenti di exit.
Anche per esse sussistono approcci restrittivi, che richiedono formulazioni compatibili con il riconoscimento del parametro minimo. Gli orientamenti notarili vanno prevalentemente in questo senso.
Ma vi sono posizioni divergenti di notevole interesse, anche giurisprudenziali. Esse talvolta hanno escluso l’applicazione del parametro minimo alle clausole di “russian roulette”, soprattutto nelle ipotesi anti-stallo (essendo quest’ultima la causa prevalente), ma anche nelle semplici ipotesi di exit.
In effetti, queste clausole non paiono assoggettare nessun socio ad un puro diritto potestativo altrui, equiparabile al riscatto, e potrebbero dunque sottrarsi al limite del parametro minimo; e ciò:
- sia perché tali clausole hanno un’intrinseca capacità di esprimere la congruità del prezzo (sempre assumendo la buona fede delle parti), posto che il socio che lo formula, a quel prezzo, è disposto sia a vendere che a comprare;
- sia perché il socio che “subisce” l’indicazione del prezzo ha comunque la scelta se vendere o comprare (per certi versi in analogia a quanto avviene nel drag along corredato di prelazione).
Non applicare in automatico il parametro minimo darebbe più respiro a queste clausole, che si rivelano talvolta una soluzione che consente alle parti di superare le complessità negoziali descritte in apertura.
3. Recesso convenzionale
Anche in relazione alle cause convenzionali di recesso, cioè ulteriori rispetto a quelle di legge, si è ipotizzata l’applicazione del parametro minimo.
Si è anche proposto di limitare l’applicazione del parametro minimo alle sole cause convenzionali che si atteggino quale reazione a certe delibere assembleari indesiderate (sempre diverse da quelle previste dalla legge).
Sempre nell’ottica di dare quanta più flessibilità possibile alla disciplina della exit, sembra coerente focalizzarci sul fatto che le ipotesi di recesso convenzionale, anche nei casi di reazione a delibere, attribuiscono facoltà aggiuntive al socio, delle quali diversamente non disporrebbe. E quindi l’applicazione del parametro minimo potrebbe essere generalmente esclusa in tutte queste ipotesi.
Conclusione
Il principio di “equa valorizzazione” non pare possa essere messo in discussione, alla luce delle previsioni di legge e dell’esigenza di tutela di tutti i soci.
L’automatico riferimento al parametro minimo (valore di liquidazione in caso di recesso legale) sembra astrattamente superabile in alcune circoscritte ipotesi.
Tra tali ipotesi si ritiene possano rientrare i casi in cui la negoziazione di parti qualificate e l’adozione di clausole consolidate nella market practice conducano a meccanismi statutari in grado di esprimere intrinsecamente una “equa valorizzazione”, anche in termini resi oggettivi, meno opinabili e più efficienti (e quindi più apprezzati dalle parti) di quanto previsto nella disciplina del recesso legale (il riferimento è, in particolare, alle citate clausole di drag along e di “russian roulette”).