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La normativa
Questa decisione offre un buon esempio di ciò che succede quando non sono chiari i modelli impositivi di riferimento, soprattutto in settori specialistici come la fiscalità societaria.
Si trattava, nel caso di specie, della disposizione che considera non imponibili, presso il socio residente, gli utili distribuiti da una controllata non residente fino all’ammontare del reddito già assoggettato a tassazione,
sempre presso il socio, in base alla normativa sulle società controllate estere (art. 167, comma 7, d.p.r. 917/1986).
Questa normativa prevede l’imputazione al socio del reddito prodotto dalla controllata estera al ricorrere di certe condizioni, che non occorre approfondire. È invece bene sapere che quel reddito – che non sarebbe altrimenti tassabile fino a che non è distribuito – è imputato pro quota al socio nel periodo di produzione e a prescindere dalla percezione, secondo un meccanismo concepito per i redditi prodotti in forma associata e in seguito esteso a talune società estere per finalità antielusive (Oecd (2015), Designing Effective Controlled Foreign Company Rules, Action 3, OECD Publishing, Paris, p. 65). Sicché, quando il reddito viene poi distribuito, bisogna evitarne una seconda imposizione sempre sul socio, per intuibili ragioni di eguaglianza e rispetto della capacità contributiva ben impresse nel sistema (art. 163, d.p.r. 917/86, e art. 67, d.p.r. 600/73).
Il comma 7 – oggi 10, dopo la riformulazione del 2019 – esplicita, insomma, un corollario della trasparenza, quale dispositivo di integrazione fra due imposizioni che, diversamente, inciderebbero su soggetti diversi e in momenti diversi – la società che produce il reddito, nel periodo di produzione, e il socio, alla percezione – e che andrebbero diversamente coordinate (gli esperti pensino alla participation exemption).
Il problema
Il giudizio verteva appunto sul trattamento degli utili percepiti – nel 2014 – dal socio italiano di una società lussemburghese soggetta alla disciplina Cfc per il solo 2014, e non anche per gli esercizi precedenti. Si discuteva, pertanto, di utili rivenienti da redditi verosimilmente prodotti ante 2014 e, a quanto è dato capire, non già imputati al socio in base alla normativa Cfc.
Secondo l’Agenzia delle Entrate, quegli utili, ancorché distribuiti in costanza di regime Cfc, erano da considerarsi imponibili per il 5 per cento del loro ammontare, derivando da redditi non già imputati al socio (perché appunto ante 2014). In effetti, la norma è sempre stata intesa nel senso che la non imponibilità presuppone che gli utili derivino da redditi già imputati al socio in esercizi precedenti (Ag. Entrate, circ. 27 dicembre 2021, n. 18/E, p. 127; Id., 26 maggio 2011, n. 23/E, par. 7.5; ma già ris., 27 luglio 2007, n. 191/E, e Min. Finanze, circ. 16 novembre 2000, n. 207) – in linea con la disciplina degli utili distribuiti da società trasparenti, i cui redditi sono anch’essi imputati ai soci alla produzione (articoli 5, 115 e 116, Tuir).
D’altro canto, il contribuente poteva opporre che il comma 7 dell’articolo 167 considera non imponibili gli utili distribuiti fino a concorrenza dei redditi assoggettati a tassazione, presso il socio, anche in periodi d’imposta precedenti. Non sembrerebbe perciò esclusa l’ipotesi in cui gli utili sono distribuiti durante lo stesso periodo d’imposta in cui il reddito societario è prodotto e imputato al socio – come quando sono pagati acconti sui dividendi, o la controllata Cfc chiude il proprio esercizio, e pone in distribuzione i relativi utili, prima che termini il periodo d’imposta del socio (cui il reddito è appunto imputato nel periodo d’imposta in corso alla chiusura dell’esercizio della controllata).
La decisione
La decisione in commento sposa quest’ultima tesi, annullando la ripresa dell’Ufficio perché la Cfc avrebbe conseguito, nel 2014, un reddito più che capiente rispetto agli utili distribuiti nello stesso periodo d’imposta; si era dunque fuori dalle ipotesi appena prospettate. Sembrano tuttavia sfuggire le implicazioni di un’applicazione forse troppo rigida di una norma di cui pure si coglie la ratio, e che risultano all’atto pratico incompatibili (le implicazioni) con il modello impositivo adottato dal legislatore.
Non è in discussione che il legislatore avrebbe, in teoria, potuto slegare la tassazione dei dividendi distribuiti dalla Cfc da quella scontata dal reddito societario, e dunque concedere la non imponibilità anche a redditi non già imputati al socio, semplificando l’applicazione di norme già molto complesse. Si sarebbe evitato al socio – e all’Amministrazione – di “tracciare” l’origine di utili distribuiti magari anni dopo la produzione – cosa non semplice nella non infrequente ipotesi di partecipazione indiretta nella Cfc (Assonime, circ. 65 del 18 dicembre 2000, p. 16). Ma non sembra questa la soluzione prescelta, anche perché gli utili rivenienti da redditi già imputati al socio sono sicuramente esclusi da imposizione, anche se distribuiti quando la controllata non si considera più Cfc (il che determinerebbe, nel nostro caso, un salto d’imposta). Si sono insomma privilegiate la coerenza del sistema impositivo e la precisa misurazione della capacità contributiva del socio, che avrebbe altrimenti beneficiato di inaccettabili franchigie d’imposta, prevenendosi al contempo elusioni che la scelta opposta avrebbe permesso: al socio – che detiene il controllo sulla Cfc – sarebbe infatti bastato differire la distribuzione degli utili fino al periodo di applicazione della normativa Cfc, per evitarne la tassazione. Ed è questa l’implicazione più difficile da accettare di questa decisione.
Il vero problema, qui però non sollevato, riguarda invece quanto degli utili vada escluso da imposizione: l’intero importo che trova capienza nel reddito già imputato per trasparenza, come dovrebbe essere, o, come ritiene l’Amministrazione, la sola parte corrispondente al reddito effettivamente tassato (che, se il reddito della Cfc, imputato al socio, fosse formato solo da dividendi, equivarrebbe di regola al 5 per cento). Ed è problema attualissimo, considerata la pervicace posizione dell’Agenzia – rispetto alla quale ci si può attendere una legittima resistenza dai contribuenti.