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I fatti di causa
La vicenda che qui si illustra prende piede dalla condotta dell’imputato il quale, in qualità di professionista (commercialista, n.d.r.), realizza una serie di operazioni commerciali atte al reinserimento nel circuito del mercato legale di fondi illeciti, derivanti dalla commissione del delitto di appropriazione indebita, commesso dal cliente dell’imputato. Segnatamente, trattasi del riciclo attraverso articolate operazioni societarie di capitali rientrati dall’estero – avvalendosi della disciplina del c.d. “scudo fiscale” del 2001 –, poi ripuliti e reimpiegati per acquistare alcuni immobili su Roma conferiti in società immobiliari. La somma oggetto di riciclaggio era piuttosto consistente e derivava in origine dai proventi della risalente vicenda delittuosa della c.d. maxi-tangente Enimont.
L’introduzione dell’autoriciclaggio, confronti con il panorama europeo
Si coglie l’occasione di commentare questa sentenza anche al fine di spiegare come si articola il complesso fenomeno del riciclaggio, con particolare riguardo all’autoriciclaggio.
L’art. 648ter.1 c.p.– che prevede il delitto di autoriciclaggio – è stato introdotto dall’art. 3 comma 3 della Legge n. 186 del 2014, nel più ampio contesto di aggiornamento legislativo che ha previsto oltre alle disposizioni in materia di autoriciclaggio, anche “Misure per l'emersione e il rientro di capitali detenuti all'estero nonché per il potenziamento della lotta all'evasione fiscale”.
Tale provvedimento, necessitato anche da pressioni sovranazionali di uniformità del diritto penale all’interno dell’Unione Europea, era volto a colmare una lacuna nel nostro sistema, essendo in precedenza punibile per il codice penale soltanto la condotta di riciclaggio (ovvero di ricettazione o reimpiego) perpetrata dal terzo estraneo al reato presupposto, stante l’operatività della clausola di sussidiarietà di cui agli artt. 648, 648bis e 648ter c.p. La novella, dunque, ha eliminato il cd. “privilegio di autoriciclaggio” che opera in relazione ai delitti di riciclaggio e impiego di denaro, beni e utilità di provenienza illecita. In ragione dell'espressa clausola contenuta nelle fattispecie criminose da ultimo citate (“fuori dei casi di concorso nel reato”), infatti, veniva esclusa la possibilità per l'autore del reato da cui derivano proventi illeciti, di rispondere, altresì, per le successive attività di riutilizzo od occultamento degli stessi.
La previsione di distinte fattispecie in materia di riciclaggio, contraddistinte tra loro dalla diversità di condotta, oggetto e autore del delitto, costituisce un unicum nel panorama europeo, infatti, in altri ordinamenti è previsto un unico reato idoneo a reprimere indistintamente le condotte riciclatorie.
Ad esempio, nel codigo penal spagnolo, all'art. 301, si punisce colui che «acquisti, possieda, utilizzi, converta o trasmetta beni, sapendo che essi sono provenienti da un'attività delittuosa, commessa da lui stesso o da terzi», non importando il ruolo dell’autore nel reato presupposto.
Nell'ordinamento francese è intervenuta, invece, la Cour de Cassation, che con una pronuncia innovativa (Chambre criminelle, 14 janvier 2004), ha esteso l'applicabilità dell'art. 321.1 (riciclaggio) del Code pénal secondo capoverso anche all'autore del reato presupposto, enunciando il principio secondo il quale «una persona può essere perseguita per aver apportato il suo contributo a un'operazione di investimento, occultamento, conversione del prodotto diretto o indiretto di un delitto di cui egli stesso è l'autore».
Profili di criticità della riforma: lo screditamento dell’attività produttiva rispetto al mero godimento personale
La riforma ha pertanto introdotto una nuova incriminazione che punisce chiunque, avendo commesso un delitto non colposo o avendo concorso nel medesimo, impiega, sostituisce, trasferisce, in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative, il denaro, i beni o le altre utilità provenienti dalla commissione di tale delitto, in modo da ostacolare concretamente l'identificazione della loro provenienza delittuosa.
Se da un lato il delitto di riciclaggio (648bis c.p.) consiste nella condotta del terzo estraneo che sostituisce o trasferisce beni di provenienza delittuosa in modo da ostacolarne, appunto, la provenienza, dall’altro l’impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita (648ter c.p.) punisce, il mero impiego in attività economico-produttive.
L’attenzione riposta dal legislatore in maniera esclusiva alle attività produttive ha generato molteplici dissapori all’interno del dibattito tra i commentatori addetti ai lavori.
Chi scrive, ritiene, in linea con una certa scuola di pensiero, che il delitto di autoriciclaggio, così come strutturato, sia causa di un’ingiusta disparità di trattamento, punendo severamente (fino a 8 anni) chi reinveste il provento del proprio delitto in attività produttive, come l’impresa, mentre lascia impunito chi utilizza tali somme per scopi personalistici, ovvero li “reinveste” in attività che esulano dal classico ciclo produttivo e dotate sicuramente di maggiore riprovevolezza.
È noto in dottrina il commento di un illustre professore all’indomani dell’entrata in vigore della novella, con cui si evidenziava come gli impulsi del legislatore “frettoloso” dell’epoca fossero una “fonte inesauribile di effetti perversi”.
Di questi effetti quello che in questa sede si ritiene più meritevole di nota è proprio quello inerente l’irragionevole esclusione della punibilità del soggetto che reimpiega denaro sporco in attività illecite, a dispetto di colui che lo reimmette nel tessuto economico.
Il paradosso che si viene a creare in materia d’impresa è il seguente.
L’imprenditore che si autofinanzia ricorrendo all’evasione e reinveste quanto risparmiato in termini d’imposta nella propria attività, sarà chiamato a rispondere di due delitti in concorso tra loro, un reato tributario e l’autoriciclaggio. Colui invece che si sottragga agli obblighi fiscali per il mero piacere di godere personalmente di quanto dovuto all’erario, ovvero, paradossalmente lo reimpiega in attività illecite, risponderà, solo e soltanto, di evasione fiscale.
Sembra chiara in questo senso l’ingiusta discriminazione tra le due condotte.
La verità però è un’altra.
Il fenomeno del riciclaggio, altrimenti noto come money laundering, è un fenomeno particolarmente odioso, che porta, se non accuratamente represso, anche a disfunzioni della concorrenza tra le imprese.
Cionondimeno, la sanzione penale non è lo strumento idoneo a prevenirlo quando diviene causa di disparità di trattamento.
Le condotte autoriciclatorie, vista l’intrinseca riprovevolezza, sono meritevoli della sanzione penale, tuttavia, l’eccessivo ricorso alla stessa, solo con riguardo alle attività produttive, non fa altro che costringere ancora di più l’attività d’impresa.
Conclusioni
Infine, in commento alla pronuncia giurisprudenziale soprarichiamata, si ritiene che il principio di diritto pronunciato dalla Suprema Corte sia perfettamente in linea con la struttura normativa che il legislatore ha dato al fenomeno in analisi.
Se per le ragioni spiegate l’Unione Europea ha imposto l’introduzione nel nostro ordinamento di una nuova fattispecie come l’autoriciclaggio, al fine di andare a colpire la condotta di colui che cerca di occultare la provenienza delittuosa dei propri fondi finanziando attività economiche, non si capisce perché il soggetto terzo, non autore del delitto che ha prodotto tali fondi, ma che si inserisca nel sistema con il fine precipuo di occultarli, debba vedersi agevolato dalla nuova disciplina.
Il riciclaggio è stato da sempre concepito dal nostro Codice come un fenomeno particolarmente riprovevole, pertanto, l’introduzione di nuove fattispecie, atte teoricamente a contrastare maggiormente tale fenomeno, è irragionevole che porti a un trattamento maggiormente favorevole per il reo.