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Con la recente sentenza n. 51497/18 del 18 settembre 2018 (dep. 14 novembre 2018), la Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi in ordine ai limiti di utilizzabilità del processo verbale di constatazione nell’ambito del procedimento penale, lato sensu inteso, avente ad oggetto reati tributari. Questa pronuncia, intervenuta in ambito cautelare, si segnala in quanto, pur aderendo al granitico orientamento che qualifica i PVC alla stregua di prova documentale ex art. 234 c.p.p., facendo da ciò derivare l’utilizzabilità degli stessi, “a fortiori, nel corso delle indagini preliminari per l’adozione di misure cautelari, sia personali, che reali”, si pone nel solco di quell’indirizzo, affermatosi proprio in seno alla Terza Sezione, che, in materia, non trascura di salvaguardare le garanzie del soggetto sottoposto ad indagine. Essa invero, puntualizza, in particolare, che, “nel momento in cui emergono indizi di reato e non meri sospetti, occorre (…) procedere secondo le modalità prescritte dall’art. 220 d. att. c.p.p., con la conseguenza che la parte di documento, compilata prima dell’insorgere degli indizi, ha sempre efficacia probatoria ed è utilizzabile, mentre non è tale quella redatta successivamente, qualora non siano state rispettate le disposizioni del codice di rito”.
La natura giuridica del PVC
Al fine di meglio comprendere la portata di tale principio, che - come accennato - ribadisce un orientamento già espresso dal giudice di legittimità, appare utile soffermarsi sulla natura giuridica del PVC, giacché è proprio da essa che occorre prendere le mosse onde stabilire se, ed a quali condizioni, le dichiarazioni in esso contenute possano essere utilizzate nel procedimento penale.
A tale riguardo, la Suprema Corte ha in più occasioni chiarito che il PVC redatto dalla Guardia di Finanza o dai funzionari degli uffici finanziari “rientra nella categoria dei documenti extraprocessuali ricognitivi di natura amministrativa e può, quindi, essere acquisito ex art. 234 c.p.p. Non è infatti un atto processuale poiché non è previsto dal codice di rito o dalle norme di attuazione (art. 207), né può essere qualificato quale «particolare forma di inoltro della notizia di reato» (art. 221 disp. att.), in quanto i connotati di quest’ultima sono diversi (cfr. Cass. Pen., Sez. III, n. 4432 del 10 aprile 1997)” (tra le tante, cfr. Cass. Pen., Sez. III, 18 febbraio 2009, n. 6881). La Suprema Corte, quindi, afferma expressis verbis la natura di documento extraprocessuale del PVC, trattandosi, come è evidente, di una “relazione” avente ad oggetto un’attività di verifica amministrativa del tutto estranea al processo penale e, per tale motivo, anziché effettuare uno sforzo ermeneutico per ricondurlo ad una delle prove disciplinate dal codice, lo assimila ai documenti, che, come noto, possono trovare ingresso nel processo penale ai sensi dell’art. 234 c.p.p. Più nello specifico, la Corte, nel confermare la teorica acquisibilità dei PVC al fascicolo per il dibattimento, ha affermato che “tali atti sono acquisibili non già in quanto atti irripetibili di p.g. (che ab origine dovrebbero essere inclusi nel fascicolo per il dibattimento), ma in quanto, appunto, prove documentali, ex art. 234 c.p.p.” (Cass. Pen., Sez. III, 14 aprile 2015, n. 15236), precisando che il “processo verbale di constatazione non risulta alterato nei suoi tratti genetici di documento proprio di un’attività amministrativa solo perché emergono indizi di reato, comportando detta emersione esclusivamente l’insorgere degli obblighi imposti dalla legge” (Cass. Pen sez. III, 28 febbraio 1997, n. 1969). Obblighi, questi ultimi, di cui si dirà oltre. Orbene, la circostanza per cui i PVC non possono ricondursi alla categoria degli atti irripetibili discende, a ben vedere, dal concetto stesso di irripetibilità, che, secondo la giurisprudenza, “deve ritenersi coincidente con quello di impossibilità materiale e ontologica di rinnovare nel giudizio il medesimo atto compiuto nella fase delle indagini preliminari, come si verifica, ad esempio, con riguardo ad atti quali perquisizioni, i sequestri, le intercettazioni, di comunicazioni, le rilevazioni urgenti in luoghi ovvero su cose o persone” (C. App. Milano, Sez. II, 20 giugno 2006; negli stessi termini, cfr. Cass. Pen., Sez. I, 20 marzo 2006, n. 10278).
In conclusione, quindi, l’insegnamento della Suprema Corte è nel senso che:
- i PVC non sono atti irripetibili, poiché privi delle necessarie caratteristiche, ma
- sono nondimeno acquisibili al fascicolo del dibattimento ai sensi dell’art. 234 c.p.p., ove si limitino a descrivere il contenuto di una attività del tutto estranea al procedimento penale, svolta da organi di controllo amministrativo.
È proprio questa, infatti, la peculiarità tipica di una PVC che, nella sua forma “ordinaria”, è un atto nel quale si descrivono le attività compiute sul piano amministrativo: è, cioè, un atto che tipicamente precede – e non già segue – attività proprie del procedimento penale. Ciò non significa, evidentemente, che il PVC non possa trarre spunto dall’attività svolta in sede penale, solo che, in questo secondo caso, venendo lo stesso ad assumere una funzione sovrapponibile a quella dell’informativa – ossia dell’atto tipico delle indagini delegate in sede penale, potrà essere utilizzato nella sola sede sua propria, id est quella amministrativa.
Confermativo di ciò è anche il tenore dell’art. 220 d. att. c.p.p., norma posta a presidio del diritto di difesa, la quale sancisce che, allorquando nel corso di attività ispettive o di vigilanza emergano indizi di reato, devono osservarsi le diposizioni del codice di rito. È proprio perché questi atti sono estranei al processo penale che il legislatore si è premurato di specificare che, per l’eventualità in cui essi contengano degli indizi di reità, dovranno osservarsi le norme del c.p.p.
Coerentemente al disposto normativo, la giurisprudenza della Suprema Corte identifica la soglia oltre la quale le attività di indagine perdono la loro matrice esclusivamente amministrativa – per assumere la qualità di atti di polizia giudiziaria e, per l’effetto, postulare il rispetto delle previsioni del codice di rito – nell’emersione di indizi di reato, affermando che: “ il processo verbale di constatazione della Guardia di Finanza o degli Ufficiali degli uffici finanziari è un atto amministrativo extraprocessuale. Qualora emergano indizi di reato occorrerà procedere secondo quanto stabilito dal codice di procedura penale, altrimenti la parte di documento redatta successivamente a questa emersione non può assumere efficacia probatoria e quindi non è utilizzabile” (Cass. Pen., Sez. III, 3 febbraio 2015; Cass. Pen., Sez. III, , 15 luglio 2011, n. 28053). Principio, questo, ribadito anche in altra pronuncia: “quando si procede (in sede di controllo fiscale) ad acquisire dichiarazioni da una persona nei cui confronti sono stati ormai acquisiti indizi di reità, non può che trovare applicazione la disciplina dettata dagli artt. 64 e 350 c.p.p., per cui, prima di assumere le sommarie informazioni, la polizia giudiziaria deve invitare la persona nei cui confronti vengono svolte le indagini a nominare un difensore di fiducia, che quindi deve assisterlo, sicché in caso di violazione di tali disposizioni, il contenuto delle dichiarazioni non è utilizzabile” (Cass. Pen., III Sez., 20 settembre 2016, n. 38358).
La pronuncia in commento si pone esattamente in continuità con tale indirizzo interpretativo, a nulla rilevando che la stessa abbia rigettato il ricorso posto dalla difesa sulla scorta dei principi fino a qui illustrati, posto che tale rigetto è derivato esclusivamente dalla mancata valutazione, nell’ordinanza impugnata, delle dichiarazioni rese in violazione del principio affermato al fine di suffragare la sussistenza del quadro di gravità indiziaria, fondato invece su elementi affatto differenti.