12 Aprile 2021

L’oggetto del negozio di cessione di partecipazioni negli ultimi orientamenti della giurisprudenza arbitrale e di Cassazione

MAURIZIO DELFINO

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Abstract

L’impresa è uno strumento per organizzare la produzione. La società è uno strumento per attrarre capitali nell’impresa (e gestirli): dunque, l’oggetto del negozio di cessione di partecipazioni sono le azioni (o le quote, in caso di srl) o l’impresa?

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1. L'oggetto del negozio di cessione

Dal punto di vista del diritto è chiaro che oggetto del negozio sono le azioni (o le quote di srl), non l’impresa. Ma è anche chiaro che, da un punto di vista economico, nelle operazioni di M&A l’oggetto vero del negoziato e quindi del negozio di cessione è l’impresa in quanto organizzazione produttiva.

Nel nostro sistema non esiste una normativa dedicata alla cessione di partecipazioni. Esiste una normativa di carattere generale sulla vendita, alcuni aspetti della quale sono sembrati suscettibili di applicazione anche alla vendita delle partecipazioni sociali. Tuttavia quest’ultimo negozio, di solito, non ha immediatamente effetto traslativo né ha natura di contratto preliminare, motivo per cui il ricorso alla disciplina della vendita può risultare disfunzionale.

2. Dichiarazioni e garanzie ("R&W")

Tipicamente, il negozio di cessione di partecipazioni contiene dichiarazioni e garanzie (“R&W”) che si riferiscono all’oggetto proprio dell’accordo (le azioni o le quote) e poi dichiarazioni e garanzie del venditore che si riferiscono direttamente all’impresa/azienda. Queste ultime sono quasi sempre assai più articolate e complesse di quelle, concettualmente più semplici, che si riferiscono ai titoli di partecipazione oggetto del trasferimento. Le dispute tra le parti contrattuali relative a questo secondo gruppo di R&W hanno messo in luce la difficoltà che un sistema codificato come il nostro a volte incontra nel seguire l’evoluzione della prassi contrattuale internazionale e di quella privatistica nazionale che a quella internazionale si ispira.

3. La pronuncia n. 22790/2019 della Cassazione

Una recente pronuncia della Cassazione (n. 22790/2019) ha ravvivato un conflitto interpretativo che sembrava da tempo sopito. Secondo l’impianto del Codice Civile, nei contratti di compravendita la tutela dell’acquirente è assicurata dalla corrispondenza tra l’oggetto del contratto promesso dal venditore e quello che è normale che l’acquirente si attenda (oggetto del contratto = oggetto di tutela). La presenza di R&W sull’impresa e sul suo patrimonio determinano quindi un’asimmetria tra oggetto del contratto e oggetto della garanzie.  

Questa asimmetria comporta risvolti pratici notevoli.

La disciplina del Codice Civile in materia di contratti di compravendita, infatti, prevede un termine di prescrizione entro cui far valere eventuali vizi del bene compravenduto estremamente breve: un anno dalla consegna della cosa (e addirittura 8 giorni per la denuncia dei vizi, un termine di decadenza derogabile, a differenza di quello di prescrizione: Artt. 1495 e 1497 Cod. Civ.).

Non esiste, invece, una norma che stabilisca entro quando è possibile proporre l’azione nel caso di violazione delle R&W nei negozi di cessione di partecipazioni societarie.

Se le R&W fossero considerate come qualità dei beni venduti, applicando la disciplina generale del codice civile, tali clausole diventerebbero pressoché inutilizzabili, considerati i tempi con cui vengono alla luce eventi normalmente garantiti (quali possono essere sopravvenienze passive di vario genere, p. es. accertamenti fiscali, etc.). La disciplina legale della vendita non è quindi in grado di tutelare il compratore e non è, all’evidenza, adeguata al caso di specie: soltanto compratori molto coraggiosi accetterebbero il rischio di acquisire partecipazioni e il funzionamento del mercato ne soffrirebbe.

4. La sentenza n. 16962/2014 della Cassazione

Nel 2013 fu presentato un progetto di legge volto a inserire una nuova sezione nel Codice Civile, introducendo, nell’ambito del contratto di compravendita, una disciplina speciale per il caso di vendita di partecipazioni sociali, tipologia di contratto che è ormai molto importante: i diritti derivanti dai patti relativi alla consistenza patrimoniale, alle prospettive reddituali e alla situazione economica e finanziaria della target si sarebbero per legge dovuti prescrivere in 5 anni (contro l’anno previsto in materia di compravendita “generale”). La proposta di legge rimase lettera morta.

L’anno successivo intervenne un’importante sentenza di Cassazione (16963/2014) che segnò un cambio di passo rispetto alle sentenze precedenti. La Suprema Corte statuì che le clausole con cui il venditore assume l’impegno di tenere indenne l’acquirente dal rischio connesso al verificarsi, successivamente alla conclusione del contratto, di perdite, sopravvenienze passive, etc. della società hanno a oggetto obbligazioni accessorie al trasferimento delle partecipazioni. Non rientrando le R&W e i relativi obblighi di indennizzo nella garanzia legale “generale” in materia di contratto di compravendita relativa alla mancanza di qualità promesse, secondo la Cassazione, si applicherebbe la prescrizione ordinaria decennale.

La Cassazione si era così finalmente allineata alla giurisprudenza arbitrale, da sempre compatta nel sostenere la non applicabilità, alla compravendita di partecipazioni, delle norme del codice in materia di vendita.

5. Cassazione: un passo indietro rispetto alla giurisprudenza arbitrale e alla prassi di mercato?

Con la sentenza  22790/2019 la Cassazione sembra tornare indietro rispetto alla giurisprudenza precedente e riecheggiare interpretazioni ormai superate: se le azioni sono intese come “beni di secondo grado” le garanzie convenzionali, sia espresse che implicite, avrebbero natura di garanzia delle qualità essenziali della cosa, con conseguente applicazione della disciplina del codice civile sulla vendita. Un’eccessiva differenza sull’effettiva consistenza del patrimonio rispetto a quanto indicato nel contratto integrerebbe, inoltre, un’ipotesi di aliud pro alio, con la conseguenza che l’acquirente potrebbe scegliere di risolvere il contratto ai sensi dell’Art. 1453 Cod. Civ., piuttosto che chiedere il risarcimento e questa sarebbe una ulteriore, grave anomalia rispetto alle normali scelte delle parti.

La giurisprudenza arbitrale, nel frattempo, non è mutata, né è mutata la prassi di mercato.

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