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Il caso e il principio
Secondo la sezione civile della Corte di cassazione, le società tra professionisti (stp) producono reddito di lavoro autonomo quando manchi un’attività diversa e ulteriore rispetto all’apporto intellettuale; producono invece reddito di impresa «quando l’esercizio della professione costituisca elemento di un’attività organizzata in forma di impresa, con prevalenza dell’organizzazione del lavoro altrui e del capitale sulla prestazione di lavoro intellettuale, sicché il reddito prodotto non possa essere riferito al solo lavoro del professionista ma debba ritenersi derivante dall’intera struttura imprenditoriale».
In mancanza di una disciplina special-tributaria, vale, per la Corte, quella civilistica e, in specie, l’art. 2238 c.c., per cui si applicano anche le disposizioni relative alle imprese commerciali, se, appunto, l’esercizio della professione costituisce elemento di un’attività organizzata in forma d’impresa.
Mancando la prova di questa circostanza, è stato rigettato il ricorso – proposto al giudice civile – di uno studio legale, costituito come s.t.p.-s.r.l., che aveva agito verso il proprio cliente per il rimborso di ritenute trattenutegli sul presupposto, appunto, che i compensi costituissero redditi di lavoro autonomo (e non ricavi, come sosteneva lo studio).
Il problema
La questione della natura del reddito delle stp nasce dal fatto che queste società producono reddito d’impresa, soggetto all’Ires, anche se svolgono in via esclusiva, o comunque prevalente, attività che, se svolte in forma individuale o associata, produrrebbero redditi di lavoro autonomo, soggetti all’Irpef insieme agli altri redditi posseduti dal contribuente. Per un principio di uguaglianza (o neutralità) dell’imposizione, le si vorrebbe dunque tassate come i professionisti.
Tra le due discipline esistono tuttora significative differenze, benché minori che in passato.
Il reddito delle società di tipo commerciale, personificate e non, è determinato unitariamente come reddito d’impresa, cioè per differenza tra ricavi e costi riferibili a tutti i cespiti appartenenti alla società. Esso “deriva” dal conto economico ed è quindi tassato alla maturazione e senza ritenute.
I redditi dall’esercizio individuale o associato della professione sono invece tassati alla percezione e i compensi soggetti, salvi regimi speciali, a ritenuta d’acconto dell’Irpef dovuta dal percipiente – di cui lo studio legale chiedeva appunto la restituzione (ricordiamo che si verteva in un giudizio civile).
Inoltre, i redditi prodotti da società di capitali scontano solo l’Ires sulla società, mentre i soci sono tassati sugli utili distribuiti. E anche se il prelievo su società e socio può superare l’imposizione Irpef sul professionista individuale, i soci della stp possono differire la tassazione fino alla distribuzione dell’utile. Il vero vantaggio della società di capitali tra professionisti consiste in questo, forse più che nell’eliminazione delle ritenute.
La posizione dell’Agenzia delle Entrate
L’Agenzia delle Entrate aveva espresso un indirizzo uniforme, ribadito anche dopo questa decisione, a conferma del legame tra forma societaria e reddito d’impresa (risoluzioni 56/E/2006 e 35/E/2018; circ. 23 luglio 2021, n. 9/E; risp. interp. 17 settembre 2021, n. 600). Mentre la diversa ris. 118/E/2003, che aveva concluso per il reddito di lavoro autonomo, muoveva proprio dal presupposto che la società tra avvocati ex d.lgs. 96/01 fosse istituto atipico, perché riservato ai soli avvocati, anch’essi titolari di redditi di lavoro autonomo – a differenza delle stp e delle sta odierne, cui partecipano anche non professionisti.
Questo principio discende dagli artt. 6, comma 3, e 81, Tuir, che considerano la società centro di produzione di un reddito che si qualifica come d’impresa, «da qualsiasi fonte provenga», ed è «determinato unitariamente». Tanto i soci-professionisti, quanto quelli non professionisti sono dunque, in questo schema, investitori (o compartecipi dell’attività della società di persone – non importa ora) e sono dunque tassati sugli utili imputati o effettivamente percepiti, a seconda che la stp sia una società di persone o di capitali.
Criticità della sentenza: l’inscindibilità del reddito societario
Questa sentenza – unica sul tema – è criticabile per vari motivi, dove distingue la natura dei redditi delle stp a seconda che vi concorrano, e in misura prevalente, fattori diversi dall’apporto intellettuale.
Contrariamente a quanto afferma la Corte, una disciplina tributaria è già prevista dagli artt. 6 e 81, che considerano d’impresa i redditi conseguiti da società commerciali, senza distinzioni – difficilmente gestibili – di oggetto sociale, attività o fattori produttivi.
Non convince, poi, il parallelo con l’imposta regionale sulle attività produttive, che, secondo la Corte, confermerebbe il rilievo dell’organizzazione, quale scriminante fra reddito d’impresa, che la presupporrebbe, e di lavoro autonomo, che ne sarebbe privo. L’Irap colpisce infatti il valore aggiunto prodotto da tutte le attività autonomamente organizzate e dirette alla produzione o scambio di beni e servizi, svolte da professionisti o società. L’autonoma organizzazione non è, dunque, indice di un’attività d’impresa.
Ma il vero problema è dove si presuppone che il reddito delle società commerciali sia d’impresa se conseguito tramite un’organizzazione d’impresa e si prospetta la possibilità di scomporlo nei redditi producibili dai fattori che vi concorrono.
È il rovesciamento (scorretto) dell’idea, radicata in dottrina, secondo cui l’attività delle società commerciali si considera, per presunzione assoluta, d’impresa, dunque produttiva di reddito d’impresa.
Ma, se si accetta che la natura del reddito societario dipende dalla sola forma giuridica, si nota che dietro queste qualificazioni, unitarietà e d’impresa, vi è (semplicemente) l’opzione – legittima e consolidata dall’uso – per una particolare disciplina di determinazione dell’imponibile e riscossione dell’imposta (come indicava la l. delega 825/1971). Disciplina concepita appunto per queste società, che risponde a preminenti ragioni di semplificazione e certezza del rapporto tributario. Esigenze che sarebbero frustrate se si dovesse verificare, per ogni società, come si produce il reddito e scomporlo in tanti redditi quanti sono i cespiti produttivi.
La presenza della società, col suo apparato contabile, non consente, insomma, di equiparare i relativi redditi a quelli conseguiti dai professionisti, individuali o associati.
Conclusioni
Il principio stabilito dalla Cassazione crea incertezze e inconvenienti, perché impegna a distinguere i redditi non professionali percepiti dalla stp, che non possono assorbirsi in un ipotetico “reddito societario di lavoro autonomo”, ma vanno determinati, e in certi casi tassati, separatamente (i redditi di capitale).
Sarebbe allora meglio evitare cortocircuiti come questo, in cui a rimetterci è solo il contribuente: lo studio legale dovrà pagare le imposte anche sulle somme ritenute, che non potrà però recuperare né dal cliente-sostituto, ostandovi questa sentenza, né direttamente in dichiarazione, senza rischiare una sanzione che pare inevitabile (resta solo la laboriosa procedura di rimborso ex art. 38, d.p.r. 602/73). Mentre i clienti-sostituti potranno finanziarsi “a costo zero” con ritenute che non devono, secondo l’Amministrazione, versare – ma di cui potrebbero a loro volta dover chiedere la restituzione, proprio all’Amministrazione, secondo l’esito dei giudizi instaurabili, in sede civile, dalle stp/sta-sostituite.
Con buona pace della certezza del diritto tributario.