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L’accesso al credito per le famiglie e le imprese è stato caratterizzato, negli anni, dalla nota vicenda delle garanzie fideiussorie omnibus modellate sugli schemi-tipo dell’ABI, a loro volta riproduttive di clausole dichiarate anticoncorrenziali dalla Banca d’Italia.
Nello specifico, con provvedimento n. 55/2005 la Banca d’Italia ha dichiarato gli artt. 2, 6 e 8 dello schema-tipo predisposto per la fideiussione omnibus in contrasto con l’art. 2 comma 2 lett. a) della L. 287/1990, avendo reputato che tali disposizioni fossero mirate ad “addossare al fideiussore le conseguenze negative derivanti dall’inosservanza degli obblighi di diligenza della banca ovvero dall’invalidità o dall’inefficacia dell’obbligazione principale e degli atti estintivi della stessa”.
Ciò poiché le clausole oggetto di censura avevano introdotto rispettivamente meccanismi di reviviscenza della garanzia (clausola n. 2), di esonero dal vincolo gravante sulla banca creditrice ai sensi dell’art. 1957 c.c. (clausola n. 6), ovvero di estensione della garanzia anche agli obblighi di restituzione del debitore derivanti dall’invalidità dell’obbligazione principale (clausola n. 8).
Per effetto di tale provvedimento sono nati contenziosi giudiziari, con i fideiussori morosi che hanno intentato una moltitudine di atti in opposizione ai decreti ingiuntivi azionati dalle banche.
I principali motivi di opposizione erano basati sulle eccezioni di nullità derivata totale dei contratti di fideiussione anticoncorrenziali, che avrebbero comportato la caducazione degli interi regolamenti contrattuali e, di conseguenza, il venir meno delle garanzie. In subordine, si rilevava la nullità parziale delle sole clausole anticoncorrenziali ovvero, in via gradata, il risarcimento del danno per comportamento scorretto delle banche nella fase di trattative, secondo la responsabilità c.d. da contratto valido ma svantaggioso.
La questione ha scatenato un vivace dibattito giurisprudenziale con cui si sono richiamate a turno le tre tesi sopracitate e, infine, è culminata con la sentenza n. 41994 del 30 dicembre 2021 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.
La pronuncia, dirimendo il contrasto, ha stabilito che i contratti di fideiussione omnibus sono affetti da nullità parziale ai sensi dell’art. 1419 c.c. Dunque, l’inefficacia si produce limitatamente alle clausole nn. 2, 6 e 8 che contrastano con la disciplina antitrust, rimanendo il contratto pienamente efficace e valido per il resto.
Tale improduttività di effetti comporta una serie di conseguenze pratiche rilevanti per il fideiussore.
Innanzitutto, il rimedio della nullità è imprescrittibile, rilevabile in ogni stato e grado del giudizio e anche d’ufficio dal giudice, non necessitando un’eccezione della parte.
Inoltre, il fideiussore non rimane impegnato a rimborsare la banca nel caso in cui il debitore (o un terzo) abbia effettuato il pagamento per estinguere l'obbligazione, ma tale operazione sia stata successivamente dichiarata inefficace, invalida o revocata per qualsiasi motivo. Non vi è, quindi, alcuna reviviscenza della garanzia in suo sfavore, come vessatoriamente previsto dalla clausola n. 2.
Ancora, per effetto dell’inefficacia della clausola n.6 (esonero dal vincolo gravante sulla banca creditrice ai sensi dell’art. 1957 c.c.) il fideiussore può eccepire l’operatività del termine di decadenza cui è onerata la banca, la quale deve proporre le proprie istanze (giudiziali o stragiudiziali) entro sei mesi dalla scadenza dell’obbligazione principale.
A tal uopo giova ricordare che l’art. 1957 c.c., rubricato “Scadenza dell’obbligazione principale”, prevede che “Il fideiussore rimane obbligato anche dopo la scadenza dell'obbligazione principale, purché il creditore entro sei mesi abbia proposto le sue istanze contro il debitore e le abbia con diligenza continuate”.
Quindi l’espunzione della clausola n. 6 dal contratto comporta nella prassi che, in assenza di un atto di diffida o di intimazione di pagamento proposto dalla banca entro sei mesi dalla scadenza del termine di pagamento, la stessa può essere dichiarata decaduta dal giudice competente su eccezione del fideiussore opponente.
Infine, l’inefficacia della clausola n. 8 produce l’inoperatività della sopravvivenza della garanzia fideiussoria agli obblighi di restituzione del debitore in caso di pronuncia di invalidità del rapporto principale. In breve, se viene pronunciata l’invalidità dell’obbligazione debitoria, vi è contestuale caducazione della garanzia fideiussoria accessoria. Si tratta di un rischio che non viene più addossato al fideiussore, ma alla banca.
Pertanto, secondo le Sezioni Unite le suddette clausole nn. 2, 6 ed 8 mutuano il vizio derivante dall’intesa anticoncorrenziale a monte sulla base di un collegamento funzionale, di tipo economico, che mira a riversare sul fideiussore le condizioni contrattuali squilibrate, in quanto pattuite “a monte” dalle associazioni di imprese bancarie.
In altri termini, la nullità sarebbe derivata dal fatto illecito imbastito “a monte” dall’intesa anticoncorrenziale, propagandosi alle clausole delle fideiussioni e rendendole nulle “ad ogni effetto”.
Il ragionamento elaborato dalle Sezioni Unite, tuttavia, non convince per una serie di ragioni.
In primo luogo, la nullità delle clausole fideiussorie antitrust è “speciale” e quindi sui generis, poiché non trova alcun riferimento nel Codice Civile.
Inoltre, è discussa in giurisprudenza la stessa qualifica delle disposizioni antitrust come norme di risultato (v. sul punto ABF Milano, 4 luglio 2019, n. 16558).
Su questa scia la migliore dottrina rileva che la nullità nascerebbe da una regola di comportamento antitrust, e non da una regola di validità. Pertanto, richiamando il noto orientamento inaugurato dalle Sezioni Unite n. 26724/2007, una regola di comportamento, salvo eccezioni espressamente previste, non può essere sanzionata dall’ordinamento col rimedio della nullità o dell’annullamento.
Escludendo, su queste basi, che le fideiussioni “a valle” possano dirsi contrarie a norme imperative, non vi sarebbe alcuna giustificazione per ammettere l’applicazione estensiva del rimedio della nullità al fine di realizzare una piena effettività del divieto di intese anticoncorrenziali.
In ultimo, è innegabile che le fideiussioni abbiano un oggetto ed una causa leciti, alla luce della mancanza di un legame di interdipendenza funzionale tra le manifestazioni di volontà negoziali delle parti del contratto di garanzia e quelle responsabili dell’accordo anticoncorrenziale. Sarebbe difficile, in conseguenza di ciò, ammettere un collegamento di tipo negoziale derivato tra intesa “a monte” e fideiussione “a valle”.
In conclusione, la pronuncia delle Sezioni Unite ha creato la soluzione “di compromesso” della nullità parziale delle clausole anticoncorrenziali, non convincendo sotto il profilo motivazionale. Probabilmente, la giustificazione più plausibile dell’arresto sarebbe mossa da superiori esigenze pratiche: da un lato, la necessità di assicurare ai consumatori una libertà di scelta sul mercato concorrenziale, che deve rendersi competitivo con una pluralità di offerte trasparenti, corrette ed adeguate alla causa dei singoli contratti stipulati (per un approfondimento sul punto, si veda Cass. Civ., Sez. Un. n. 2207/2005); dall’altro, quella di mantenere in vita le garanzie fideiussorie per assicurare l’integrità del sistema bancario.
D’altronde, il solo rimedio del risarcimento del danno a favore dei fideiussori non avrebbe assicurato un effetto dissuasivo per le banche, col rischio che potessero rimanere impunite per l’abusività e vessatorietà degli effetti delle clausole a sfavore degli utenti.
Al contrario, il rimedio della nullità totale avrebbe provocato uno scenario inquietante: la caducazione “a catena” delle fideiussioni pattuite, col rischio di un collasso del sistema bancario e creditizio.