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La casistica e le decisioni
Due decisioni su questo tema del recupero IVA erroneamente addebitata dal fornitore al cliente sono interessanti: a) Corte di giustizia tributaria di II° grado della Toscana che ha preso posizione con la decisione 1141/2022 (che riforma una decisione della CTP a favore del contribuente) e b) Corte di Cassazione con la decisione 32900/2022 (che conferma sul punto la decisione negativa della CTR negativa per il contribuente).
Nello specifico (decisione della CTR) abbiamo un soggetto che prima formulava una richiesta di rimborso per somma pari a complessivi Euro 5.000.000 e quindi, a seguito di revisione in proprio della documentazione e anche di procedure di ravvedimento, riduceva la richiesta a un massimo di 800.000 euro.
Fondamentale è il punto per cui il soggetto richiedente “… nella istanza di rimborso … deduceva di non essere riuscita ad ottenere dai propri fornitori (società cedenti) la restituzione della maggiore IVA addebitabile in fattura e da essa corrisposta, ma rettificata in diminuzione per effetto delle dichiarazioni integrative del 6 settembre 2016. Richiedeva, quindi, all’Ufficio il rimborso di tale imposta, ossia la differenza tra l’imposta calcolata con aliquota ordinaria e corrisposta ai fornitori ed il 10% effettivamente detratto dal 2011 al 2014, invocando l’art. 30 ter del d.p.r. n. 633/1972, in vigore dal 12 dicembre 2017 a seguito dell’approvazione della legge del 20 novembre 2017 n. 167 ed il mutato regime sanzionatorio previsto nell’articolo 1, comma 935, della legge 27 dicembre 2017 n. 205 che ha modificato l’art. 6, comma 6, del d.lgs. n. 471/1997. L’Ufficio negava il rimborso …”.
La CTR fa presente che “… quest’ ultima innovazione, secondo un orientamento giurisprudenziale (Cass. 28 ottobre 2020 n. 23817), oltre ad incidere sul regime sanzionatorio prevedendo un trattamento più mite della violazione tributaria, riconoscerebbe il diritto di detrazione del cessionario dell’i.v.a. ad esso indebitamente applicata dal cedente, con applicazione della norma in chiave sostanziale e non esclusivamente sanzionatoria. Ad avvalorare tale interpretazione vi sarebbero esigenze di economicità e semplificazione degli adempimenti dei contribuenti, atteso che, da un lato, il riconoscimento del diritto di detrazione in capo al cessionario non comporterebbe alcun danno per l’ Erario, in quanto espressamente subordinato al versamento dell’ imposta da parte del cedente (o prestatore) e, dall’altro, consentirebbe al contribuente di recuperare l’ importo erroneamente versato in eccesso in modo più rapido ed efficace rispetto alla richiesta di restituzione del cedente …”.
Una tesi, quella espressa nella citata decisione che appare del tutto ragionevole, se non fosse che la Corte di Cassazione cambia idea e si esprime in modo opposto con la decisione 21 aprile 2021 n. 10439 e la decisione 19 novembre 2021 n. 35500 ed in “… quest’ ultima sentenza ha affermato che la precedente ed avversata tesi interpretativa “si pone in contrasto con la sesta direttiva 77/388/CEE ( nonché con successiva direttiva 2006/112/CE) così come costantemente interpretata dalla Corte di Giustizia, secondo cui , benché il diritto a detrazione dell’ i.v.a. costituisca parte integrante del meccanismo dell’imposta, il suo esercizio è limitato alle sole imposte dovute e non può essere esteso all’ i.v.a. indebitamente versata a monte, per cui non si estende all’imposta dovuta esclusivamente in quanto esposta nella fattura (Corte Giust. 10 luglio 2019, Kursu Zeme)” …”.
A questo punto la situazione si rovescia e quindi la CTR indica con chiarezza che si applica il principio per cui “… per recuperare l’imposta di rivalsa indebitamente versata, l’operatore avente il diritto a detrazione dovrà avanzare richiesta di restituzione all’operatore che ha emesso una fattura erronea, conformemente al diritto nazionale …”.
In questa visione “punitiva” del giudice di merito si inserisce anche la Corte di Cassazione (con la decisione recente di Novembre 2022) affermando in modo netto che “… In caso di operazione erroneamente assoggettata ad IVA (nella specie ad un’aliquota eccedente quella applicabile) non è ammessa la detrazione dell’imposta pagata e fatturata atteso che, ai sensi dell’art. 19, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, e in conformità dell’art. 17 della direttiva del Consiglio CEE del 15 maggio 1977, n. 77/388/CEE, e degli artt. 167 e 63 della successiva direttiva del Consiglio del 28 novembre 2006 n. 2006/112/CE (come interpretati dalla giurisprudenza della Corte di giustizia), l’esercizio del relativo diritto presuppone l’effettiva realizzazione di un’operazione assoggettabile a tale imposta nella misura dovuta …”.
Da questa considerazione giuridica e preliminare dice la Corte “… ne discende che, ove l’operazione sia stata erroneamente assoggettata all’IVA, per la misura non dovuta sono privi di fondamento: (i) il pagamento dell’imposta da parte del cedente (il quale ha diritto di chiedere all’Amministrazione il rimborso di quanto versato in eccesso); (ii) la rivalsa effettuata dal cedente nei confronti del cessionario (il quale ha diritto di chiedere al cedente la restituzione dell’IVA in via di rivalsa, nella parte erroneamente versata); (iii) la detrazione operata dal cessionario nella sua dichiarazione IVA, con conseguente potere-dovere dell’Amministrazione di escludere la detrazione dell’imposta così pagata in rivalsa …”.
Conclusioni
La tesi espressa in queste due decisioni (CTR e Cassazione) mi pare soggetta a forti critiche (Peirolo uno dei maggiori tecnici IVA, per quanto mi è dato capire, mi pare non concordi) ma, da professionista pratico, devo far notare che di fronte ad un indirizzo giurisprudenziale che appare ormai abbastanza consolidato gli operatori devono fare molta attenzione avuto riguardo al fatto che esiste il forte rischio di una contestazione se il recupero avviene in difformità da quanto indicato.