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Il tema della cessazione definitiva dell’attività dell’ente – e delle conseguenti ripercussioni in ambito 231– è recentemente finito sotto la lente d’ingrandimento della Corte di Cassazione, chiamata da un lato a decidere in merito alla legittimità di un svincolo parziale volto a consentire l’adempimento delle obbligazioni tributarie (e, quindi, la sopravvivenza stessa della società) e, dall’altro, all’omessa declaratoria di estinzione dell’illecito amministrativo in ragione della documentata cancellazione della società imputata 231 dal registro delle imprese.
Il riferimento è anzitutto alla sentenza n. 13936 dell’11 gennaio 2022 con cui la Sesta Sezione ha aperto per la prima volta alla possibilità di un dissequestro parziale delle somme sottoposte a sequestro preventivo al fine di consentire all’ente imputato ai sensi d.lgs. n. 231/2001 di far fronte al pagamento del debito tributario con l’Erario ed evitare, così, la cessazione definitiva dell’attività dell’ente.
Dopo aver ricordato che – con specifico riferimento alla responsabilità delle persone fisiche e fermo restando il meccanismo di riduzione dell’importo da assoggettare a confisca previsto dall’art. 12 bis, comma 2, d.lgs. n. 74/2000 – la giurisprudenza di legittimità non consente lo svincolo delle somme sottoposte a sequestro preventivo per pagare il debito tributario, “richiedendo che l’adempimento dello stesso avvenga con moneta diversa” (Cass. pen., sez. III, 12 dicembre 2019, n. 14738, rv. 279462) e che pertanto il vincolo reale può essere legittimamente mantenuto “fino a quando permane l’indebito arricchimento derivante dall’azione illecita, che cessa con l’adempimento dell’obbligazione tributaria” (ex plurimis, Cass. pen., sez. VI, 18 febbraio 2021, n. 26874, rv. 282326), la Sesta Sezione si è domandata se, in ambito 231, fosse possibile “consentire lo svincolo parziale delle somme sequestrate a fini di confisca per pagare le imposte sui redditi illecitamente lucrati a mezzo della commissione del reato presupposto”.
Consapevole che la disciplina della responsabilità amministrativa da reato non contempla una possibilità di questo tipo, il Collegio ha fatto leva su un’interpretazione costituzionalmente orientata del principio di proporzionalità della misura cautelare ed ha ammesso il dissequestro parziale delle somme oggetto di sequestro preventivo, ogni qualvolta ciò si “renda necessario al fine di evitare, per effetto dell’applicazione del sequestro preventivo e dell’inderogabile incidenza dell’obbligo tributario, la cessazione definitiva dell’esercizio dell’attività dell’ente prima della definizione del processo”.
A voler ragionare diversamente – a voler ritenere preclusa, cioè, ogni forma di svincolo volta a soddisfare le pretese dell’Erario – si rischierebbe di trasformare il sequestro preventivo finalizzato alla confisca “in una forma di interdizione definitiva dell’attività operante già in sede cautelare e indipendentemente da una affermazione definitiva di responsabilità dell’ente”, con buona pace del principio di progressività e di proporzionalità delle misure cautelari.
In base al nuovo orientamento della Sesta Sezione, la cessazione definitiva dell’esercizio dell’attività dell’ente rappresenta, in ultima analisi, l’evento da scongiurare ad ogni costo: lo svincolo parziale delle somme deve infatti ritenersi ammesso alla stringente condizione della dimostrazione di un sequestro preventivo che, nella sua concreta dimensione afflittiva, metta in pericolo l’operatività corrente e, dunque, la sussistenza stessa del soggetto economico e al solo limitato fine di pagare il debito tributario, con vincolo espresso di destinazione e pagamento in forme “controllate”.
Si tratta, a quanto consta, del primissimo arresto giurisprudenziale in materia, i cui principii si auspica possano trovare riconoscimento non soltanto in ambito 231 ma anche in favore delle persone fisiche imputate di reati tributari.
Diametralmente opposto l’approccio della Quarta Sezione, secondo cui la cessazione definitiva dell’attività dell’ente e la conseguente cancellazione dal registro delle imprese rappresenta un evento del tutto irrilevante (come tale non necessariamente da evitare) ai fini della configurabilità di una responsabilità 231.
Con sentenza n. 9006 depositata lo scorso 17 marzo, infatti, la Suprema Corte – mutando l’orientamento, fino quel momento consolidato, secondo cui nei confronti delle società cancellate dal registro delle imprese non può configurarsi alcuna responsabilità amministrativa – ha riconosciuto che “la cancellazione dal registro delle imprese della società alla quale si contesti (nel processo penale che si celebra anche nei confronti di persone fisiche […]) la violazione del D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231” in relazione al reato che “si assume commesso nell'interesse ed a vantaggio dell'ente, non determina l'estinzione dell'illecito alla stessa addebitato”.
Ad avviso dei giudici della Quarta Sezione, infatti, “la cancellazione della società non pone un problema di accertamento della responsabilità dell'ente per fatti anteriori alla sua cancellazione, responsabilità che nessuna norma autorizza a ritenere destinata a scomparire per effetto della cancellazione dell'ente stesso”, con la conseguenza che l’estinzione della persona giuridica, nelle società di capitali, comporta quindi che la titolarità dell’impresa passi direttamente ai singoli soci.
Come già evidenziato in dottrina, la soluzione proposta non convince specie considerato lo scenario che si verificherebbe ove la cancellazione dal registro delle imprese intervenisse prima della sentenza definitiva.
In questo caso, infatti, le sanzioni 231 risulterebbero inutilmente inflitte, a meno di voler sostenere – come si potrebbe desumere da un obiter della sentenza n. 9006 – che, in caso di cancellazione dal registro delle imprese, le sanzioni (perlomeno quelle di natura pecuniaria) debbano essere irrogate nei confronti dei soci, dei soggetti cioè a cui passerebbe “la titolarità dell’impresa”.