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La struttura dei delitti di truffa e ricorso abusivo al credito
Il delitto di truffa è il classico delitto contro il patrimonio commesso con frode e attraverso la cooperazione artificiosa della vittima. Trattasi di un reato comune, che può essere commesso da chiunque, attraverso artifici o raggiri, induca in errore la persona offesa, affinché ponga in essere un atto dispositivo del proprio patrimonio, in favore del soggetto agente, nella convinzione della legittimità della dazione.
Il ricorso abusivo al credito, invece, rientra tra i c.d. reati fallimentari commessi dal fallito. È un reato proprio – può essere commesso dagli amministratori, dai direttori generali, dai liquidatori e dagli imprenditori esercenti un'attività commerciale – e ai fini della configurabilità è richiesta la sentenza dichiarativa di fallimento quale condizione obiettiva di punibilità. La collocazione sistematica del reato giustifica da un lato il fallimento quale presupposto necessario del reato, dall’altro la procedibilità d’ufficio. Infatti trattasi di un reato plurioffensivo, posto a presidio non solo del patrimonio dell’istituto di credito quale nuovo creditore, ma anche di quello dei creditori preesistenti, oltre della generale tutela costituzionale del risparmio (47 Cost.). Per quanto riguarda l’elemento oggettivo, è punita la condotta di chi ricorra o continui a ricorrere al credito dissimulando il proprio dissesto ovvero il proprio stato d’insolvenza. Trattasi anche in questo caso di una condotta decettiva, tuttavia non è necessario che la stessa sia caratterizzata da artifici e raggiri. Invero, la fattispecie di cui all’art. 218 L.F. ricalca sostanzialmente la struttura dell’insolvenza fraudolenta, p. e p. all’art. 641 c.p., differenziandosi per il duplice elemento specializzante del destinatario della condotta (un istituto di credito) e della necessaria dichiarazione di fallimento.
Tali elementi concorrono insieme ai precedenti a caratterizzare il rapporto di specialità del ricorso abusivo al credito rispetto alla truffa.
Il rapporto di specialità tra i delitti e l’assorbimento della truffa nella condotta di cui all’art. 218 L.F.
Prima che la L. 28 dicembre 2005, n. 262, art. 32, comma 1, modificasse il R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 218, esso conteneva una clausola di riserva che impediva la configurazione di un concorso formale tra il delitto di ricorso abusivo al credito e quello di truffa, rendendo applicabile il delitto fallimentare solo in via sussidiaria, nel caso in cui il fatto non costituisse un più grave reato.
Poichè il ricorso abusivo al credito era punito nel massimo con la pena di anni due di reclusione, mentre il massimo edittale della truffa era pari ad anni tre di reclusione, nel caso in cui il fatto fosse ricaduto sotto la previsione di entrambe le norme incriminatrici, doveva ritenersi configurabile il solo delitto di truffa.
A seguito della citata novella è stata, però, espunta detta clausola di salvaguardia, pertanto il Supremo Collegio, nella sentenza in commento, ha dovuto sciogliere il dubbio circa la configurabilità di un concorso formale di reati ovvero di un concorso apparente di norme e in quest’ultimo caso in favore di quale fattispecie risolverlo.
Come noto, la Giurisprudenza di legittimità, nonostante alcune considerevoli eccezioni della Dottrina, è granitica nel sostenere il “monopolio” del criterio di specialità di cui all’art. 15 c.p. quale strumento di risoluzione dei conflitti apparenti tra norme penali.
Ciò posto, non vi è dubbio che la condotta tipica del ricorso abusivo al credito – siccome descritta in precedenza - sia caratterizzata da una serie di elementi specializzanti che giustificano l’eventuale assorbimento in questa del reato di truffa. Basti pensare che, sebbene trattasi di condotte per molti aspetti coincidenti, la natura di reato proprio, la necessità del fallimento come condizione obiettiva di punibilità e in generale la maggiore ampiezza dell’oggettività giuridica del reato, rendono sicuramente l’art. 218 L.F. una norma speciale rispetto alla truffa, soprattutto oggi che coincidono gli schemi edittali.
Anche dal lato dei destinatari della condotta, dunque dell’offensività della medesima, il ricorso abusivo al credito si differenzia per elementi aggiuntivi rispetto al classico 640 c.p. Invero, l'assunzione di ulteriore debito da parte di chi già versi in stato di dissesto prefallimentare rende non solo improbabile il suo futuro adempimento, ma reca danno oltre al patrimonio del soggetto che concede il nuovo credito (e che dovrà sopportare il danno derivante dell'eventuale inadempimento, come avviene nel caso della truffa ), anche agli interessi di coloro che sono divenuti creditori in virtù di un titolo anteriore poiché essi, in caso di insolvenza, concorreranno con il nuovo creditore e ciascuno di essi parteciperà in misura inferiore al riparto dell'attivo fallimentare. Più in generale poi, dalla norma viene presidiato l’interesse pubblico (dell’economia nazionale) a che il fraudolento ricorso al credito non distrugga risorse economiche che potrebbero essere impiegate in maniera più proficua in favore di destinatari in bonis.
Conclusione
Il principio di diritto sancito dalla sentenza appare coerente con i principi generali che regolano la materia. Infatti, per un verso viene valorizzata la funzione della normativa speciale in materia di reati fallimentari, per altro l’applicazione del criterio di specialità impedisce un’inutilmente vessatoria duplicazione di sanzioni a carico dell’imprenditore per il medesimo fatto di reato.
La condotta che caratterizzava la fattispecie in esame poteva astrattamente sussumersi al di sotto di entrambe le disposizioni penali (640 c.p. e 218 L.F.), cionondimeno, il favor mostrato nei confronti della disciplina fallimentare si ritiene possa risaltare maggiormente la funzione general-preventiva della sanzione. Risulta, infatti, in linea con i dettami costituzionali la prevalenza del reato fallimentare, attesa la plurioffensività del medesimo e, dunque, il propagarsi degli effetti della condotta criminosa a un numero indeterminato di destinatari.