* * *
A ben vedere già la legge di delegazione europea 2016/2017 (L.163/2017), art. 8, piuttosto eloquentemente, trascurava del tutto la necessità di recepire la Direttiva Europea 2014/57/UE (“MAD 2”) dedicata alle sanzioni in ambito di market abuse, perseverando nella poco perspicua convinzione che il sistema punitivo penale-amministrativo domestico risalente al 2005 fosse coerente con le previsioni della fonte continentale appena menzionata.
Sarebbe quantomeno stato lecito attendersi dal passaggio parlamentare dello Schema una rivisitazione della legge di delegazione, in guisa tale da ricomprendervi l’obiettivo dell’adeguamento a MAD 2, anche in ragione del fatto che, già prima dell’invio della bozza del suddetto Schema alle Camere, il Servizio Studi del Senato aveva evidenziato, non a torto, una serie di necessità d’intervento sino ad allora inspiegabilmente pretermesse.
Tra le numerose criticità sottolineate forse la più urgente da risolvere era quella del superamento del cd. doppio binario sanzionatorio, o meglio, come è più corretto dire, della rivisitazione di tale sistema alla luce del diritto vivente formatosi in seno alle Corti di Strasburgo e Lussemburgo.
Sfortunatamente, tuttavia, l’entrata in vigore del D.lgs n. 107/2018 alla fine dello scorso settembre non ha fatto registrare alcun significativo passo nella direzione della risoluzione delle svariate aporie che da troppo tempo affliggono questa sfortunata materia. Per questo motivo non è affatto esagerato parlare di occasione sprecata.
In questa sede è sufficiente dare conto in estrema sintesi di alcune macroscopiche criticità rimaste irrisolte all’indomani dell’incompleto, e per certi versi anche infelice, intervento riformatore qui in commento.
L’improvvida ma purtroppo intenzionale scelta di non recepire MAD 2 implica, prima di qualsiasi altra considerazione, conseguenze di non poco conto. La Direttiva infatti, in tema di insider trading, impone l’incriminazione del cd. insider secondario, la cui condotta nel regime attualmente vigente è punita esclusivamente, ai sensi dell’art. 187 bis TUF, con una sanzione amministrativa, salvo i casi di concorso con l’insider primario.
La stessa Direttiva, poi, detta un trattamento sanzionatorio differenziato per l’autore di condotte di tipping, considerata correttamente fattispecie meno grave, rispetto all’autore di condotte di vero e proprio trading o di tuyautage; nella legislazione italiana, invece, le tre diverse condotte sono oggi equiparate in punto di pena, il che, effettivamente, anche in un’ottica di opportunità politico-criminale, non appare per nulla difendibile.
Altro ambito di potenziale criticità potrebbe emergere dalla riscrittura della definizione di informazione privilegiata conseguente all’abrogazione dell’art. 181 TUF, laddove per tale via viene ampliato il novero delle situazioni che possono originare la medesima.
Le conseguenze di tale estensione non sono di poco conto: automaticamente si troverebbero infatti a soggiacere a sanzione penale condotte che precedentemente non erano punibili, nonostante il fatto che il legislatore delegato non sia stato in alcun modo autorizzato dalla legge delega ad intervenire sulla norma che sanziona l’insider trading, allargandone la portata applicativa. Un siffatto sconfinamento dai paletti imposti dalla delega non può non sollecitare forti dubbi di legittimità costituzionale per violazione del principio di riserva di legge.
Quanto poi all’omessa rivisitazione del sistema del doppio binario sanzionatorio, al di là di altre ragioni di carattere più marcatamente politico, sulle quali non pare il caso addentrarsi, non può non rilevarsi come essa possa essere influenzata dalla pervicace resistenza del legislatore italiano a differenziare in modo netto le condotte penalmente rilevanti da quelle sanzionabili in via amministrativa.
Se infatti, seguendo l’esempio comunitario, il legislatore avesse optato per l’adozione di una tecnica legislativa improntata ad una più incisiva tipizzazione del precetto, si sarebbero verosimilmente evitate pericolose sovrapposizioni tra la fattispecie penale e quella amministrativa.
Finché infatti, come accade oggi, lo stesso fatto storico sarà contemporaneamente sussumibile nell’alveo applicativo sia dell’una che dell’altra, per il giudice nazionale chiamato in causa per salvaguardare il rispetto del divieto di doppia incriminazione sarà più complesso valutare la complessiva proporzionalità del cumulo sanzionatorio.
In una prospettiva de iure condendo, se il sistema fosse improntato ad un criterio di progressione di gravità dell’illecito nel quale la sanzione penale sia riservata alle sole violazioni più serie, il problema del ne bis in idem sarebbe in buona parte risolto.
E certamente a tal uopo non sarà invocabile il meccanismo di contemperamento invocato dall’art. 187 terdecies TUF: il rimedio in questione è per sua natura applicabile alle sole sanzioni pecuniarie comminate dall’Autorità Giudiziaria in sede penale o da Consob in sede amministrativa, e pertanto non può disciplinare né il profilo delle sanzioni interdittive (sovente ben più afflittive di quelle aventi natura propriamente penale), né tantomeno può venire invocato in caso di applicazione di pene detentive.
Conclusivamente, solo poche righe sulla riscrittura dell’art. 186 sexies in tema di confisca amministrativa. Era sicuramente indispensabile ridisegnare l’oggetto del quantum sottoponibile ad ablazione, ed è quindi corretto averlo identificato con il solo profitto (netto) e non anche con l’insieme dei beni utilizzati per conseguire il medesimo; tuttavia non è spiegabile il motivo per il quale una simile disposizione non sia stata prevista anche con riferimento alla vera e propria confisca penalistica di cui all’art. 186 TUF. Tale insuperabile disparità di trattamento, per risolvere la quale non è applicabile il meccanismo delineato dall’art. 187 terdecies TUF, pare infatti porsi in evidente frizione con il principio costituzionale di cui all’art. 3 Cost.