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La vigente fattispecie incriminatrice di false comunicazioni sociali sanziona[1] “amministratori, direttori generali, dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, sindaci e liquidatori” che in modo concretamente idoneo ad indurre altri in errore ed al fine di conseguire un ingiusto profitto, “espongono fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero ovvero omettono fatti materiali rilevanti la cui comunicazione è imposta dalla legge” nei documenti contabili societari.
In seguito alla riforma degli artt. 2621 ss. del codice civile, avvenuta ad opera della legge n. 69 del 2015, è sorto un intenso dibattito, sia dottrinale che giurisprudenziale, circa il novero delle condotte idonee ad integrare il reato di “falso in bilancio”.
Invero, l’eliminazione dell’inciso “ancorché oggetto di valutazione”, che nella formulazione previgente qualificava i “fatti materiali” suscettibili di essere mendaci, sembrava aver portato ad una parziale abrogazione della norma e ad un conseguente restringimento delle condotte considerate illecite, con specifico riguardo all’esclusione del c.d. falso valutativo, ovverosia il mendacio perpetrato attraverso valutazioni che adottino criteri diversi da quelli dichiarati o differenti da quelli imposti dalla norma civilistica.
Due pronunce della Corte di Cassazione emesse a breve distanza dall’intervento del legislatore, oltre ad aver dato una chiara risposta alla vexata quaestio, hanno inoltre fornito criteri estremamente significativi per perimetrare l’ambito di rilevanza penale della norma in esame.
Le Sezioni Unite[2], adite per risolvere il dibattito sorto internamente alla Quinta Sezione, hanno infatti statuito che nonostante la netta eliminazione dell’inciso potesse apparentemente indicare la volontà di estromettere l’illiceità delle condotte valutative, l’intenzione del legislatore debba essere desunta “oltre l’involucro verbale”, considerando altresì la ratio della norma.
Soffermandoci brevemente su tale aspetto, la legge n. 69 del 2015, recante Disposizioni in materia di delitti contro la pubblica amministrazione, di associazioni di tipo mafioso e di falso in bilancio, si prefissava eloquentemente di contrastare il fenomeno della corruzione.
A parere del legislatore, tale scopo sarebbe stato raggiunto - oltre che ovviamente attraverso un intervento sulle norme incriminatrici - anche con l’inasprimento del trattamento sanzionatorio e della fattispecie di false comunicazioni sociali, poiché tali condotte potrebbero essere indice di una condotta volta ad occultare fondi legati ad attività illecite[3], costituendo così un “evento sentinella” di numerosi altri reati.
Di talché, seguendo il percorso argomentativo dei Giudici di Legittimità, la tesi filo-abrogazionista si sarebbe posta in netto contrasto con tale premessa.
Inoltre, secondo la Corte, il bilancio sarebbe comunque “un documento dal contenuto essenzialmente valutativo”, trattandosi di una componente fisiologica nella traduzione di numeri in poste di bilancio.
Il momento valutativo, prosegue la Corte, non sarebbe libero, bensì vincolato da “tutta la norma civilistica (che) presuppone e/o prescrive” la redazione del bilancio, dettandone in gran parte i criteri, i quali troverebbero la loro fonte anche nelle direttive europee o sono frutto dell’elaborazione di organi certificatori (OIC e IFRS).
La Corte conclude la trattazione esprimendo un chiaro e rilevante principio di diritto: con riguardo alla esposizione o alla omissione di fatti oggetto di valutazione, sussiste il delitto di false comunicazioni sociali “se in presenza di criteri di valutazione normativamente fissati o di criteri tecnici generalmente accettati” vi sia un discostamento “consapevole”, e di tale discostamento non sia data “adeguata informazione giustificativa.”
Indicazioni ulteriori idonee a delineare le condotte penalmente rilevanti sono pervenute dalla sentenza Cass. Pen. Sez. V. n. 46689 dell’8 novembre 2016.
La Corte riprende l’impostazione ermeneutica adottata dalle Sezioni Unite, rilevando come, sebbene vi siano determinati criteri che vincolano il redattore nel suo operato, nel giudizio di falsità sulle poste valutative esposte nel bilancio, sarà comunque da vagliare il grado di dettaglio e la precisione che tali criteri dettano, dovendosi inoltre contestualizzare le valutazioni e considerare le modalità con cui sono state motivate le scelte di appostazione dei dati. Con riferimento al caso concreto posto all’esame della Suprema Corte, i giudici hanno infatti censurato la decisione della Corte territoriale per aver omesso di argomentare sulla “eventuale totale irragionevolezza del criterio scelto”, nonché sulla mancata “corrispondenza tra i criteri di valutazione dichiarati e quelli seguiti”[4].
Alla luce del percorso tracciato dalle due sentenze ora esaminate, appare meglio definito il contorno della rilevanza penale della condotta valutativa posta in essere dagli amministratori e dagli altri soggetti attivi individuati dalla norma: al fine di poter ascrivere la responsabilità penale in capo all’agente, il giudice sarà dunque chiamato a compiere un complesso giudizio ex post, che dovrà considerare ogni singola voce del documento contabile contestato, e comporsi di diversi “livelli” di valutazione, tra loro necessariamente concorrenti.
Qualora la valutazione non sia stata effettuata in modo aderente rispetto ai criteri normativamente fissati o tecnicamente accettati, occorrerà sondare se di tale discostamento sia stato dato conto in modo idoneo a rendere il fruitore del documento sociale consapevole delle scelte contabili effettuate.
Solo qualora il Collegio ritenga totalmente irragionevole il criterio utilizzato, sarà possibile pronunciare un giudizio di falsità sulla posta di bilancio iscritta.
Ciononostante, l’esito di tale accertamento non sarà comunque sufficiente a ritenere integrato il reato di false comunicazioni sociali: il giudizio prognostico dovrà riguardare altresì l’idoneità delle poste ritenute false (sia per la loro rilevanza “numerica”[5], che per la loro essenzialità o per i valori monetari espressi), ad alterare il quadro decisionale dei soggetti cui tali comunicazioni sono indirizzate.
Statuita la capacità decettiva delle poste false, sarà ulteriormente necessario verificare l’esistenza dell’elemento soggettivo del dolo in capo all’agente.
In ogni caso, come autorevolmente rilevato, la falsità non si anniderebbe solamente nelle semplici appostazioni numeriche[6]; le scelte ermeneutiche adottate dalla giurisprudenza hanno infatti indirettamente conferito un’estrema rilevanza alla nota integrativa (ex art. 2427 c.c.), documento che consentirebbe di tradurre il dato algebrico in un processo valutativo, consentendo al fruitore di comprendere le scelte operate dal redattore del bilancio e rappresentando quindi “chiave di lettura del bilancio e la esplicitazione dei criteri (e della eventuale deroga a tali criteri) di redazione dello stesso”[7].
Sarà quindi necessario accertare che tale documento contenga chiara e precisa informazione delle scelte adottate in ordine ai principi contabili utilizzati, ciò al fine di escludere qualsiasi possibile rilevanza penale nell’esposizione dei “fatti societari”.
In conclusione, si noti come la condotta avente ad oggetto l’esposizione di dati considerati non falsi (oppure non rilevanti) dal punto di vista penalistico possa tuttavia essere censurabile dal punto di vista civilistico, essendovi una “linea di demarcazione” tra un bilancio che non sia rispettoso delle norme civilistiche e un bilancio “falso” dal punto di vista dello jus terribile.
Premessi infatti i criteri di valutazione della falsità come indicati dalla giurisprudenza[8], il discrimine tra i due diversi profili di illiceità sarebbe dunque costituito dalla ricostruibilità dei processi valutativi[9], ed in tale risvolto si apprezzerebbe la differenza tra la normativa civile di redazione del bilancio e quella penale sulla falsità delle comunicazioni sociali.
Se, infatti, potrebbe astrattamente essere civilmente sanzionabile qualsiasi condotta che non rappresenti in modo veritiero la condizione economica della società, lo jus terribile viene in rilievo solo quale extrema ratio, ovverosia quando non sia garantita la trasparenza della comunicazione sociale attraverso la possibilità di ricostruire le scelte contabili utilizzate.