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Non è raro che i dipendenti al di fuori dell’orario lavorativo (ma in alcuni casi anche durante), pubblichino sulla propria pagina personale, o eventualmente sulle bacheche di altri utenti, c.d. post (commenti) lesivi dell’operato del proprio datore di lavoro o di componenti direttivi dell’azienda.
Conseguenze penali a parte, di cui si farà solo un breve accenno in questa sede, gli effetti negativi di detto comportamento possono ripercuotersi in maniera dirompente sul rapporto di lavoro sfociando, nei casi più gravi, nei c.d. licenziamenti disciplinari.
Nel corso degli ultimi anni, infatti, sempre più numerosi sono i casi di lavoratori sottoposti a procedimenti disciplinari per aver pubblicato sui social network commenti offensivi del proprio datore di lavoro; in ragione dei predetti comportamenti si è assistito ad un aumento esponenziale dei contenziosi giudiziali per stabilire la legittimità o meno delle sanzioni irrogate dall’azienda.
In effetti, la giurisprudenza è impegnata da tempo nel delineare il sottile confine tra il c.d. diritto di critica ed il reato di diffamazione che, in tale ultima ipotesi, si realizza attraverso comportamenti lesivi della reputazione della persona offesa (nel caso in questione del datore di lavoro) tali da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario tra il lavoratore e quest’ultimo e comportare l’irrogazione del licenziamento disciplinare.
Tra le pronunce giurisprudenziali, non possiamo non menzionare la recente sentenza della Corte di Cassazione n. 13799/2017, depositata lo scorso 31 maggio 2017, in cui i giudici di legittimità, a conferma della sentenza resa dalla Corte d’Appello territoriale in sede di giudizio di reclamo ex art. 1 comma 58 L. n.92/2012 (Legge c.d. Fornero), hanno confermato l’illegittimità del licenziamento intimato da un’azienda nei confronti di un dipendente che aveva criticato tramite Facebook il proprio datore di lavoro.
Nel caso di specie, infatti, i giudici della Suprema Corte hanno ritenuto lecito l’esercizio del diritto di critica da parte del dipendente esercitato a mezzo social network purché lo stesso non comporti una vera e propria diffamazione del proprio datore di lavoro.
Facebook e altri comportamenti non tollerati dalle aziende
Da ultimo, i social network possono pure risultare un elemento di distrazione dallo svolgimento della regolare attività lavorativa, come tale non tollerato dalle aziende.
Sempre più frequenti, infatti, sono i casi di dipendenti che accedono ai social network durante l’orario di lavoro per scopi estranei alle prestazioni lavorative.
Tali accessi, solitamente, avvengono attraverso gli strumenti aziendali - su tutti personal computer e telefoni cellulari dotati di una connessione internet - messi a disposizione dal datore di lavoro per lo svolgimento della prestazione lavorativa.
Così come avviene per la pubblicazione di post offensivi, tali condotte possono essere oggetto di sanzioni disciplinari e, nei casi più gravi, portare alla risoluzione del rapporto di lavoro.
In effetti, negli ultimi anni la giurisprudenza si è trovata ad esaminare casi di dipendenti intenti durante l’orario di lavoro ad accedere in maniera frequente, e per periodi di tempo prolungati, su siti internet non inerenti l’attività lavorativa.
Degna di nota è la sentenza del Tribunale di Brescia 782/2016 in cui il Giudice del Lavoro ha ritenuto legittimo il licenziamento disposto nei confronti di un dipendente che era solito accedere ai social network durante l’orario di lavoro. La pronuncia in questione ha peraltro stabilito che nel caso di specie non era neppure ravvisabile un comportamento lesivo della privacy del dipendente in quanto il datore di lavoro si era limitato a verificare la cronologia degli accessi da parte del lavoratore su un dispositivo aziendale messo a disposizione di quest’ultimo per l’effettuazione della prestazione lavorativa e non certamente per un utilizzo estraneo alla regolare attività di lavoro.
Dalle considerazioni esposte ne consegue che l’utilizzo dei social network da parte del lavoratore deve avvenire sempre tenendo in considerazione le possibili conseguenze, talvolta negative, che ne potrebbero derivare.
Nel primo caso, la potenziale lesione dell’immagine dell’azienda che, nei casi più gravi, può comportare il licenziamento disciplinare del lavoratore e, allo stesso tempo, risvolti di natura penale e di natura civilistica quale la richiesta di risarcimento del danno avanzata dall’offeso nei confronti dell’autore della pubblicazione.
Nel secondo, il licenziamento disciplinare per aver sottratto tempo all’attività lavorativa, tempo che doveva essere invece impiegato dal dipendente per il regolare svolgimento delle mansioni assegnategli.