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In entrambe le sentenze citate i giudici sottolineano che sempre e, comunque, anche nel caso in cui il contratto addirittura precisi che non è dovuto alcun adeguamento del prezzo, l’impresa appaltatrice non rimanga sprovvista di mezzi di tutela nel caso in cui si verifichi un aumento esorbitante dei costi del servizio in grado di azzerarne o comunque di comprometterne in modo rilevante la redditività; nel corso del rapporto, infatti, qualora si verifichi un aumento imprevedibile del costo del servizio in grado di alterare il sinallagma contrattuale rendendo il contratto eccessivamente oneroso per l’appaltatore, questi può sempre esperire il rimedio civilistico di cui all’art. 1467 c.c., chiedendo la risoluzione del contratto di appalto per eccessiva onerosità sopravvenuta, alle condizioni previste dalla norma e, ovviamente, con azione proposta dinanzi al giudice competente.
Andando oltre i due casi specifici, resta comunque sullo sfondo la questione centrale e, cioè, se veramente sia necessaria una normativa per la gestione del caro prezzi. Infatti, occorre interrogarsi su come introdurre a sistema un meccanismo di compensazione del cd. caro materiali o energia in un contesto legislativo - quale quello attuale - in cui il riconoscimento di una modifica di un prezzo intesa come revisione del prezzo è disciplinata in modo specifico nel codice civile che trova applicazione, per quanto non derogato, anche per i contratti delle pubbliche amministrazioni.
Ebbene, nelle more o a prescindere da interventi legislativi mirati che, talvolta, sortiscono l’effetto di ingarbugliare ancora di più una già intricata normativa, il sistema generale dei contratti ha già in sé i rimedi per le sopravvenienze, ed in particolare quello della rinegoziazione del contratto, che le parti hanno il diritto e il dovere di utilizzare, trattandosi di una soluzione fornita all’ordinamento.
I Contraenti, anche gli appaltatori pubblici, possono ricorrere ai rimedi ordinari previsti dal codice civile, così come reinterpretati e attualizzati, da una parte della dottrina e della giurisprudenza, alla luce dei principi costituzionali di solidarietà sociale e giustizia sostanziale e della clausola generale di buona fede, che si applicano a tutti i contratti pubblici o privati. Per quanto riguarda l’appalto pubblico, va ricordato, infatti, che laddove l’ente agisca “uti privatorum”, come accade nell’esecuzione del contratto, è anch’esso assoggettato alle norme di diritto privato perché usa dell’autonomia negoziale, al pari dei soggetti privati dell’ordinamento (artt. 1 co. 1 bis e 11 L. 241/1990 e art 30 comma 8 del dlgs 50/2016).
Il principio di buona fede
Occorrerebbe rammentare un principio elementare del nostro codice civile, il cd. principio di buona fede. Ci si è chiesto se agisca in buona fede la parte che, a conoscenza della sopravvenienza non imputabile all’altra, se ne avvantaggiasse rifiutando la pur possibile rinegoziazione del contratto facendo valere un regime giuridico che nega la possibilità di attivazione di meccanismi revisionali. La risposta, piuttosto scontata consente di invocare la riconduzione a equità del rapporto tramite negoziazione e il dovere del committente di tentarla, tramite proposte serie ed accettabili, con il limite dell’apprezzabile sacrificio personale ed economico. Il dovere di rinegoziare il contratto alterato dalle sopravvenienze, secondo una parte della giurisprudenza e della dottrina è insito nel dovere di esecuzione del contratto secondo buona fede, dovere che incombe su entrambe le parti. Quel principio di buona fede che grava su entrambi i contraenti e, comporta un dovere reciproco di attivazione per la salvaguardia dell’altrui interesse. La logica conseguenza dell’inadempimento di un siffatto obbligo è stata ravvisata, oltre che nella possibilità dell’appaltatore di agire per il risarcimento danni nei confronti del committente riottoso, anche nel diritto di ricorrere al giudice per ottenere l’esecuzione specifica dell’obbligo inadempiuto, ovvero una sentenza che tenga luogo dell’accordo di rinegoziazione non concluso (cfr. la Relazione tematica n. 56 dell’8.7.2020 Cassazione civile su “novità normative sostanziali del diritto emergenziale anti-Covid 19 in ambito contrattuale e concorsuale”).
I rimedi utilizzabili
Da ciò discende che tra i rimedi ordinari utilizzabili, vi è quello della rinegoziazione, che appare la soluzione più ragionevole e preferibile, perché valorizza la volontà contrattuale, preservando il piano costi e ricavi originariamente pattuito; si fonda su di un elemento concreto e dimostrabile, la causa del contratto, intesa come la ragione economica del rapporto, in funzione del quale sono stati ripartiti e vanno riallineati i sacrifici tra le parti (utile atteso per l’appaltatore); conserva il contratto consentendo la realizzazione del risultato.
Ma sempre tra i rimedi ordinari utilizzabili, si può validamente ricorrere alla cd. eccessiva onerosità sopravvenuta dell’art.1467 del codice civile, che prevede la risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta, che l’altra parte può evitare offrendosi di modificare equamente le condizioni del contratto.
Merita esser sottolineato che la rinegoziazione risulta esser uno strumento più duttile per superare l’impasse creatosi perché a differenza della revisione prezzi, ricomprende la prestazione in tutte le sue diverse forme di adempimento e va oltre il mero riconoscimento dell’aumento dei prezzi, talvolta, non praticabile per la carenza di risorse economiche. La rinegoziazione consente di rimodulare le modalità attuative della prestazione mediante, ad esempio, modifica dei materiali dell’appalto, oppure dei tempi dell’esecuzione o dell’entità dei lavori, ad es. stralciando quelli non indispensabili, nel rispetto del programma iniziale, senza stravolgerlo ovvero solo differendoli. Anche in questo caso non si tratta di rimedi spuri al sistema, ma della rimodulazione di un mezzo già previsto dal legislatore (la rinegoziazione in buona fede in funzione del giusto riequilibrio) (cfr. Relazione. Cassazione , . cit.).
E che il codice civile sia valida fonte di normazione applicabile al pubblico, ne è prova la recente delibera di Anac dello scorso 11 maggio, n. 227 resa su sollecitazione con richiesta di parere di alcuni operatori del settore delle telecomunicazioni, nella quale il lock-down adottato in Cina per il Covid e l’invasione dell’Ucraina vengono considerati cause di forza maggiore, estranee al controllo dei fornitori. Pertanto, nei casi in cui è oggettivamente impossibile adempiere alla fornitura dei beni come da contratto, le amministrazioni possono valutare la sospensione del contratto, e anche escludere l’applicabilità delle penali o della risoluzione contrattuale.
La delibera di Anac offre una brillante ricostruzione della normativa applicabile nei casi che attualmente tutte le nostre amministrazione stanno registrando e vivendo non solo quelle che operano nel settore dei lavori , unico settore per il quale almeno per la parte prezzi anche se in modo caotico, il Legislatore è intervenuto.
Conclusioni
Ricorrendo a clausole che disciplinano proprio criticità quale quelle attuali saremo in grado di non bloccare i contratti, ma farli eseguire intervenendo nell’interesse comune di tutti parti private e pubbliche. Non vi è la necessità di invocare norme, norme di riforma che nell’attuale contesto non potranno manifestare alcuna virtù taumaturgica e meno che mai armonizzatrice, ma solo accrescere le difficoltà applicative.