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La legislazione antimafia persegue l’obiettivo di prevenire le infiltrazioni mafiose nelle attività economiche, non solo nei rapporti dei privati con le pubbliche amministrazioni (contratti pubblici, concessioni e sovvenzioni), mediante lo strumento delle informazioni antimafia (artt. 90-95 del d.lgs. 159/2011), ma anche quello di inibire l’esercizio della normale attività economica nei rapporti tra i privati, mediante lo strumento delle comunicazioni antimafia (artt. 87-89 d.lgs. 159/2011). In entrambi i casi l’impresa interdetta non può neanche vantare, secondo consolidata giurisprudenza amministrativa, l’esecuzione del giudicato risarcitorio patito in connessione all’attività di impresa.
Tali strumenti amministrativi di contrasto alla criminalità organizzata giustificano la portata derogatoria rispetto alle generali regole sul procedimento amministrativo consacrate nella L. 241/1990 e l’attenuazione delle garanzie procedimentali. Difatti, la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha ritenuto che in questo tipo di procedimenti non siano previsti né la comunicazione di avvio di cui all’art. 7 L. 241/90, né le ordinarie garanzie partecipative.
Presupposto della comunicazione antimafia è la fotografia del cristallizzarsi di una situazione di permeabilità mafiosa contenuta in un provvedimento giurisdizionale, ormai definitivo, con cui il Tribunale ha applicato una misura di prevenzione personale prevista dal Codice Antimafia, ed ha un contenuto vincolato di tipo accertativo, attestando l’esistenza o meno della situazione tipizzata nel provvedimento di prevenzione.
Invece, l’informazione antimafia possiede, oltre al contenuto vincolato proprio della comunicazione antimafia, anche un contenuto di tipo discrezionale nella parte in cui il Prefetto ritenga la sussistenza o meno di tentativi di infiltrazione mafiosa nell’attività d’impresa, desumibili o dai provvedimenti di condanna e dagli elementi, tipizzati nell’art. 84 co. 4 d.lgs. 159/2011, o dai provvedimenti di condanna anche non definitiva per reati strumentali all’attività delle organizzazioni criminali, unitamente ai concreti elementi da cui risulti che l’attività di impresa possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata.
La peculiarità di tali provvedimenti, si rammenta di natura amministrativa e non penale, postula che il grado dimostrativo degli elementi sintomatici dell’infiltrazione mafiosa, elaborati dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, è caratterizzato dai seguenti requisiti. In primo luogo, risulta estranea al sistema delle informative antimafia qualsiasi logica penalistica di certezza probatoria raggiunta al di là di ogni ragionevole dubbio, poiché una simile logica vanificherebbe la finalità anticipatoria dell’informativa, che è quella di prevenire un grave pericolo e non già quella di punire una condotta penalmente rilevante. Pertanto, il rischio di inquinamento mafioso dev’essere valutato in base al criterio del “più probabile che non”, alla luce di una regola di giudizio fondata su dati di comune esperienza evincibili dall’osservazione dei fenomeni sociali, qual è appunto il fenomeno mafioso.
Inoltre, gli elementi posti alla base dell’informativa possono anche non derivare da condotte penalmente rilevanti. Anzi, spesso e volentieri la prassi impone che tali indizi probatori vengano desunti da relazioni di polizia, che non tengono conto delle vicende giudiziarie del destinatario del provvedimento interdittivo, il quale può ben essere destinatario di sentenze di assoluzione.
Tuttavia, l’elemento più significativo, e sconcertante, delle informative antimafia riguarda la presunzione (formalmente relativa) valutata dagli organi prefettizi, secondo la quale è sufficiente che vi siano rapporti di parentela tra il titolare, socio od amministratore e familiari che siano soggetti affiliati, organici o contigui alle associazioni mafiose. Ciò sul presupposto che, nei contesti sociali in cui attecchisce il fenomeno mafioso, all’interno della famiglia può verificarsi una influenza reciproca e legami di cointeressenza, solidarietà, copertura, ovvero di soggezione o tolleranza, per cui la complessiva organizzazione criminale di natura clanica si avvale, spesso e volentieri, di soggetti incensurati o comunque non attinti da pregiudizi mafiosi.
Tuttavia, la pur nota tecnica con cui le organizzazioni criminali reimpiegano sul mercato gli infiniti proventi economici derivanti dalle attività illecite, utilizzando lo scollamento tra titolarità formale (soggetti con fedina penale pulita) e titolarità sostanziale dell’attività (membri dell’organizzazione criminale), non rende sempre efficace la risposta anticipatoria delle interdittive antimafia. Questo perché, mancando un contraddittorio procedimentale tra Prefettura e destinatario, spesso le interdittive risultano viziate da violazione di legge, venendo emanate in difetto dei presupposti richiesti, nonché da eccesso di potere.
Le figure sintomatiche di eccesso di potere cui i provvedimenti prefettizi possono essere viziati sono varie. Il procedimento può generare un’istruttoria incompleta e lacunosa, in cui non si considerano eventuali presupposti di fatto rilevanti, tra cui la recisione dei legami del destinatario con la famiglia mafiosa di appartenenza. Ancora, si manifesta una motivazione apodittica e contraddittoria, attesa la contraddizione logica che contraddistingue i rapporti tra il quadro fattuale e giuridico ed il criterio di scelta di comminare la misura.
Difatti, in assenza di un dialogo endoprocedimentale, il provvedimento viene adottato mediante un substrato miope alla realtà della condizione del destinatario, che ben potrebbe aver aderito a reti di tutela tali da dimostrare una dissociazione di fatto dalla famiglia mafiosa di appartenenza. Da qui deriva anche un travisamento dei fatti, in quanto vengono acquisiti elementi, specialmente nelle relazioni di polizia, in cui il provvedimento elenca la sussistenza dei legami familiari e ne fa discendere il pericolo di infiltrazione mafiosa che giustificherebbe l’adozione dell’interdittiva. Seguono anche altri vizi di eccesso di potere, tra cui la sproporzione (intesa come inadeguatezza) ed irragionevolezza della misura a tutelare l’ordine pubblico economico, qualora si dimostri che non vi sono tentativi di infiltrazione mafiosa nell’organigramma imprenditoriale.
Dunque, si tratta di uno strumento che ha un impatto fortissimo sull’iniziativa economica mirato ad evitare l’inquinamento dei capitali illeciti di matrice mafiosa, ma che non sempre viene usato in maniera accorta dagli organi prefettizi, così determinando un vulnus sistematico di vizi di illegittimità che si riverberano sul provvedimento prefettizio.
L’accortezza con cui dev’essere esercitato il potere interdittivo salta ancor più all’occhio se si pensi che tali strumenti, per il notevole carattere afflittivo e gli effetti di incapacità giuridica che producono in seno all’impresa destinataria, risultano notevolmente deteriori delle misure di prevenzione del controllo giudiziario stabilite dagli artt. 34bis e ss. del d.lgs. 159/2011. Tanto che, per evitare la morte dell’impresa, il destinatario dell’interdittiva spesso richiede la conversione della misura nel controllo giudiziario ex art. 34bis in sede di impugnativa presso il TAR.
Tale misura di prevenzione può andare, in caso di infiltrazione occasionale, da una mera opera di monitoraggio, tutoraggio o controllo dell’attività di impresa ad opera di un amministratore nominato dal Tribunale, ad una più stringente attività di gestione sostitutiva del medesimo amministratore giudiziario nell’ipotesi di infiltrazione permanente.
Conclusione
In conclusione, come affermato dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, l’ordinamento non riconosce dignità e statuto di operatori economici alle imprese eterodirette dalle organizzazioni criminali mafiose, che vengono colpite da tali misure interdittive generando una severa compressione dell’iniziativa economica privata.
Tuttavia, la casistica giurisprudenziale ha dimostrato che, in numerosi casi, il potere discrezionale delle amministrazioni prefettizie sconfini in arbitrio, così provocando gravi danni agli imprenditori ed al tessuto economico in cui questi esercitano l’attività.
Utilizzare con criterio il potere interdittivo, rispettando lo schema attributivo che il Codice Antimafia attribuisce alle amministrazioni prefettizie, potrebbe garantire una risposta anticipatoria efficace nella lotta al fenomeno della criminalità mafiosa.
Se così non fosse, si assisterebbe (come peraltro avviene in alcuni territori del sud Italia) alla morìa del tessuto economico-imprenditoriale, con evidente penalizzazione del valore costituzionalmente garantito della libertà di iniziativa economica privata.