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Premessa
Una delle questioni più discusse, nell’ambito del dibattito sul rapporto tra ordinamento interno e normativa sovranazionale, riguarda il tema del provvedimento amministrativo in contrasto con la normativa dell’Unione europea (UE) o con la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU). Nella prima categoria rientrano le norme UE direttamente applicabili nel nostro ordinamento, come le disposizioni del Trattato sull’Unione europea (TUE), del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), dei regolamenti e delle direttive self-executing. La CEDU è invece un trattato internazionale, sottoscritto a Roma nel 1950, di cui sono parti contraenti gli Stati membri del Consiglio d’Europa. A seguito dell’entrata in vigore nel 2009 del Trattato di Lisbona (che ha modificato il TUE ed istituito il TFUE), la CEDU ha trovato un primo riconoscimento anche nell’ambito delle fonti UE, essendo oggi espressamente richiamata nei parr. 2 e 3 dell’art. 6 TUE.
A seconda che si tratti di un provvedimento amministrativo che viola una disposizione riconducibile alla normativa UE (atto c.d. anticomunitario o antieuropeo) oppure alla CEDU, è possibile sviluppare alcune considerazioni, anche alla luce della giurisprudenza più recente e del rango che assumono dette fonti nell’ordinamento interno.
Il rango delle norme dell’Unione europea nell’ordinamento interno e il contrasto di un provvedimento amministrativo con le disposizioni UE
In tema di rapporto tra norme UE e legislazione interna ordinaria, la Corte costituzionale, all’esito di un percorso giurisprudenziale che ha coinvolto anche la Corte di giustizia dell’Unione europea (CGUE), è approdata ad una tesi c.d. filo-comunitaria, affermata per la prima volta nella nota sentenza Granital, n. 170 del 5 giugno 1984, e poi “rifinita” attraverso ulteriori pronunce (cfr. sentenze nn. 113/1985 e 389/1989). In sintesi, secondo la Consulta, le norme UE direttamente applicabili nell’ordinamento interno, benché teoricamente appartenenti ad un ordinamento giuridico distinto, prevalgono sulla legislazione ordinaria, anteriore o posteriore che sia. Ciò implica che, nell’ipotesi di contrasto tra diritto UE e diritto interno, qualsiasi giudice o organo amministrativo dovrà disapplicare il secondo, fermo restando il rispetto dei principi fondanti l’ordine costituzionale (c.d. controlimiti). La tesi della prevalenza delle norme UE sulla legislazione ordinaria trova oggi legittimazione non solo nell’art. 11 della Costituzione, ma anche nell’art. 117 che espressamente vincola il legislatore italiano agli obblighi «derivanti dall’ordinamento comunitario». Dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, la Corte costituzionale, nell’abbandonare progressivamente la visione c.d. dualista degli ordinamenti, sembra essersi indirizzata verso una sempre maggiore condivisione della tesi c.d. monista sostenuta dalla CGUE, secondo cui sussiste un unico sistema giuridico ove diritto UE e diritto interno si integrano nel segno della prevalenza del primo sul secondo (cfr. Corte Cost., ord. n. 103 del 15 aprile 2008).
In relazione al contrasto tra provvedimento amministrativo e diritto UE, si possono configurare due ipotesi di antinomia, ossia diretta o indiretta. Nel primo caso, l’atto amministrativo si pone in contrasto con una o più disposizioni di matrice eurounionale. Nella seconda ipotesi, invece, il provvedimento risulta conforme ad una normativa interna che però viola, di per sé, una o più disposizioni UE.
In questo quadro, se si condivide la tesi monista sulla unitarietà dei due ordinamenti, l’atto amministrativo in contrasto con le norme UE si dovrà ritenere annullabile per violazione di legge, a prescindere dalla distinzione tra antinomia diretta e indiretta. Da tale prospettiva, si tratta di un unico sistema normativo e pertanto la “natura” della norma violata (interna e UE) non assume alcun rilievo, con la conseguenza che l’antinomia integra in ogni caso un’ipotesi di annullabilità per violazione di legge (art. 21 octies l.n. 241/1990).
Diversamente, condividendo la (maggioritaria) tesi dualista, le sorti dell’atto in contrasto con il diritto UE potrebbero differire a seconda che si tratti di antinomia diretta o indiretta. Nel primo caso, ricorrerà la medesima ipotesi – anche sostenuta dai monisti – di annullabilità del provvedimento per violazione di legge. Invece, con riferimento all’ipotesi del contrasto indiretto, una parte della giurisprudenza nazionale ha invocato un’ulteriore distinzione in base alla “natura” della norma interna di riferimento, a seconda che sia attributiva o regolativa del potere amministrativo. In un caso si tratterebbe eccezionalmente di nullità per difetto assoluto di attribuzione (ad integrazione delle ipotesi già previste dall’art. 21 septies l.n. 241/1990), nell’altro, invece, di annullabilità (in forza degli artt. 21 octies l.n. 241/1990 e 21 nonies l.n. 241/1990).
Per quanto riguarda l’ipotesi di annullabilità dell’atto amministrativo antieuropeo, sotto il profilo processuale l’impugnazione del provvedimento soggiace al termine di decadenza di sessanta giorni, essendo gli Stati membri liberi di individuare limiti e termini per il ricorso ai rimedi giudiziali (cfr. Corte di Giustizia Comunità Europea, Sez. VI, 27 febbraio 2003, C-32). Ne consegue che un atto amministrativo rimasto inoppugnato manterrà in ogni caso la sua validità ed efficacia (cfr. TAR Sardegna, Cagliari, Sez. II, n. 77 del 5 febbraio 2020). In tale prospettiva, una volta esclusa la possibilità di “disapplicare” l’atto definitivo che viola indirettamente il diritto UE, il cittadino potrà al più attivare il rimedio del risarcimento danni da provvedimento illegittimo, salvo che la PA non intervenga in autotutela.
Il regime di stabilità del provvedimento amministrativo antieuropeo e il potere della PA di intervenire in autotutela
Rispetto all’esercizio del potere di autotutela in caso di provvedimenti antieuropei, la giurisprudenza più recente ha evidenziato che trattasi anche in questo caso di «potere meramente facoltativo», dovendosi escludere «che a fronte di un atto amministrativo “anticomunitario” (o come taluni preferiscono qualificarlo, “antieuropeo”) la Pubblica Amministrazione abbia un obbligo di annullamento d’ufficio o un mero obbligo di riesame e che il Giudice sia sempre tenuto a disporne la disapplicazione in caso di omessa impugnazione» (TAR Sicilia, Catania, Sez. IV, n. 500 del 28 febbraio 2020, che richiama, ex multis, Cons. Stato, Sez. III, n. 4538 dell’8 settembre 2014). Ciò significa che il principio di primazia del diritto dell’Unione non incide, in linea generale, sul regime di stabilità degli atti nazionali definitivi che risultino illegittimi rispetto alla normativa UE. Come affermato dalla Corte dell’Unione (CGUE, 13 gennaio 2004, C-453/04, par. 27; CGUE, 12 febbraio 2008, C-2/06, par. 38) e di recente ribadito dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza n. 17/2021, l’obbligo di autotutela in relazione ad un atto amministrativo antieuropeo sussiste eccezionalmente in presenza di alcune condizioni, ovverosia quando:
- la PA disponga, secondo il diritto nazionale, del potere di riesaminare l’atto;
- il provvedimento amministrativo sia divenuto definitivo a seguito di una sentenza di un giudice interno di «ultima istanza»;
- alla luce di una giurisprudenza della CGUE successiva alla sentenza definitiva, quest’ultima risulti fondata su una «interpretazione errata» del diritto dell’Unione ed interno, adottata senza che la Corte dell’UE fosse stata adita in via pregiudiziale.
Il rango della CEDU nell’ordinamento interno e il contrasto tra le sue norme e il provvedimento amministrativo
Anche il rapporto tra CEDU e ordinamento nazionale è stato contraddistinto da una lunga evoluzione giurisprudenziale, definita con le note sentenze c.d. gemelle della Corte costituzionale (n. 348/2007 e n. 349/2007). Con tali pronunce, il giudice costituzionale ha infatti inquadrato la CEDU quale fonte interposta di rango sub-costituzionale, recante disposizioni prevalenti rispetto alle leggi ordinarie. Nell’affermare la forza vincolante della CEDU, la Consulta ha specificato che tale prevalenza sulle leggi ordinarie si traduce nell’obbligo, per il giudice che ravveda un contrasto con la normativa interna, di esperire un tentativo di interpretazione conforme alle disposizioni convenzionali (come nel tempo interpretate dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo). Solo ove non sia possibile risolvere il contrasto in via interpretativa, il giudice a quo potrà sollevare questione di legittimità costituzionale per violazione di norma interposta ai sensi dell’art. 117, co. 1, Cost. (cfr. Corte Cost., n. 239/2009; Corte Cost., n. 311/2009; Corte Cost., n. 317/2009). Nonostante il riconoscimento della CEDU nell’ambito delle fonti dell’Unione (art. 6 TUE) e l’iniziale tentativo della giurisprudenza interna di giustificare un’avvenuta “comunitarizzazione” delle relative norme convenzionali, la Corte costituzionale ha confermato la natura di norma interposta della CEDU. Pertanto, il giudice interno potrà eventualmente disapplicare ex art. 11 e 117 Cost. le norme interne ritenute incompatibili con la CEDU solo nel caso in cui il contrasto interessi i diritti fondamentali enucleabili dalla Convenzione, in quanto coincidenti con quelli fondanti l’ordinamento UE.
Dal rango riconosciuto CEDU nell’ambito dell’ordinamento interno discende in ogni caso l’annullabilità, per violazione di legge, del provvedimento amministrativo che contrasta con le disposizioni convenzionali. Una delle norme maggiormente richiamate dalla giurisprudenza nazionale come parametro di legittimità del provvedimento amministrativo è l’art. 6 CEDU, che tutela tanto il giusto processo (anche amministrativo) quanto, a monte, il giusto procedimento amministrativo (in questi termini, cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. III, n. 6255 del 18 dicembre 2020).